Fratello Wittgenstein all'ombra di S. Benedetto di Anacleto Verrecchia

Fratello Wittgenstein all'ombra di S. Benedetto Nel ' 18-' 19 il filosofo, prigioniero a Cassino, voleva farsi monaco: i retroscena taciuti dai biografi Fratello Wittgenstein all'ombra di S. Benedetto IITTGENSTEIN aveva pensato di farsi monaco e l'idea gli venne durante la prigionia a Cassino, ai I piedi della celebre abbazia benedettina. E' il capitolo meno studiato della sua vita. Sull'autore del Tractatus logico-philosophicus, diventato suo malgrado un mito, si sono riversati fiumi d'inchiostro. Ultimamente sono uscite anche due voluminose biografie: Brian McGuinness, Wittgenstein, il giovane Ludwig (1889-1921), Il Saggiatore 1990, e Ray Monk, Wittgenstein, il dovere del genio, Bompiani 1991. Ma anche questi due biografi tendono, come quasi tutti gli studiosi di Wittgenstein, a trascurare la forte inclinazione religiosa o meglio mistica del filosofo. E fu proprio a Cassino, all'ombra o sotto la protezione di San Benedetto, che tale inclinazione si fece sentire maggiormente, fino a segnare una svolta decisiva nella sua vita. Su questo abbiamo la testimonianza diretta, sia pure in poche pagine, di Franz Parak, amico e compagno di prigionia del filosofo: Wittgenstein prigioniero a Cassino, ed. Armando 1978. Anche lui ufficiale dell'esercito austriaco e uomo di penna, Parak parte subito con un richiamo all'abbazia di Montecassino: «E dalla montagna si affacciava con imponenza il monastero di San Benedetto». Poi riferisce che un giorno, con il monastero dinanzi agli occhi, Wittgenstein gli confidò il proposito di darsi alla vita sacerdotale; dato, però, che quattro anni di teologia gli sembravano troppi, avrebbe fatto l'insegnante elementare: «In realtà - mi disse - preferirei diventare sacerdote, ma anche come maestro potrò leggere il Vangelo insieme con i ragazzi». E mantenne la promessa, anche se continuò ad accarezzare l'idea di entrare in convento. Egli era stato fatto prigioniero sul fronte italiano il 3 novembre 1918, proprio alla vigilia dell'armistizio. Prima lo avevano por- tato in un campo di concentramento vicino a Como e poi a Cassino, dove rimase da gennaio fino al 21 agosto 1919, giorno della sua liberazione. Il biografo britannico McGuinness parla con molta velenosità del campo di prigionia di Cassino, definendolo un «triste scenario di baracche». Ma questo non è assolutamente vero e basta vedere una fotografia dell'epoca per convincersene. Non si trattava di baracche in legno, bensì di costruzioni in muratura ben arieggiate e ben disposte. Parak, testimone diretto, scrive che in «ogni stanza vi erano, disposti lungo due pareti, più letti in ferro con materasso, cuscino e due coperte». Più tardi il «Concentramento», che si chiama così ancora oggi, venne adibito a caserma per la «Legione allievi carabinieri reali». McGuinness parla anche di «continua fame» patita dai prigionieri e quindi anche da Wittgenstein. Ma nemmeno questo è vero: gli italiani, semmai, trattano male i propri concittadini, non gli stranieri. Egli distorce volutamente o interpreta a modo suo quello che scrive Parak: «Eravamo sempre affamati, sia per il fatto che negli ultimi tempi in patria non si potè più mangiare di certo a sazietà, sia perché nella mensa non c'erano soltanto i fichi, ma anche altre squisitezze come l'eccellente mortadella italiana». Si trattava di fame arretrata, dunque, mentre le «squisitezze» come i fichi e la mortadella sembravano fatte apposta per stuzzicare un palato austriaco. Del resto, i prigionieri venivano perfino invitati nelle case private, come ricorda ancora qualche anziano della zona. Fu da Cassino che Wittgenstein inviò il manoscritto del Tractatus logico-philosophicus a Bertrand Russell. Altre due copie del manoscritto furono spedite all'amico Paul Engelmann e al filosofo-matematico Gottlob Frege, il quale dichiarò subito di non averci capito neanche una parola. E se non lo capiva Frege, che era stato uno dei suoi maestri, figuriamoci gli altri. In effetti il Tractatus, un libretto di poche pagine, ha un tono oracolare ed è così arcano che sembra scritto da una sibilla. Il fatto che Wittgenstein ne facesse più copie dimostra comunque che egli, durante la prigionia, potè lavorare e scrivere tranquillamente, il che risulta anche dalle lettere. Insomma, non se la passò male. Ciò che lo tormentava era proprio il problema etico-religioso. Già quando era studente all'istituto tecnico di Linz, frequentato contemporaneamente anche da Hitler, egli dimostrò scarso interesse per tutto tranne che per la religione, materia nella quale riportò per due volte il massimo dei voti. Ma a Cassino tale interesse divenne così grande che egli decise di darsi o alla vita sacerdotale o, quanto meno, a una forma di apostolato. Quanta parte ebbe, in tale decisione, la vista dell'abbazia di Montecassino? Anche se non è facile scavare nell'animo di un uomo chiuso come Wittgenstein, tutto lascia pensare che egli abbia subito il fascino del monastero e della sua regola. Montecassino, luogo di culto da almeno tre millenni, ha sempre esercitato un fascino particolare sugli spiriti pensanti: ad esempio su Plotino, che avrebbe voluto fondarvi la sua Platonopoli. Parak parla di due gite, la prima al monastero di Montecassino e la seconda a Aquino, il paese di San Tommaso. E' probabile che la proposta di andarci sia partita proprio da Wittgenstein. Ma è anche probabile che egli sia stato più di una volta nell'abbazia benedettina. I suoi familiari e i suoi amici, fra cui Russell e Keynes, fecero diversi passi per farlo liberare. Fu interessata la Santa Sede, che a sua volta interessò l'abate di Montecassino. Il filosofo rifiutò di essere liberato da solo, dicendo che sarebbe ritornato in patria quando avessero potuto farlo anche i suoi commilitoni. Comunque, gli furono accordati privilegi parti¬ colari. E' logico pensare che l'abate abbia voluto conoscere o almeno sapere chi fosse quel prigioniero tanto raccomandato da ambienti internazionali e addirittura dal Vaticano. L'abate era Gregorio Diamare, lo stesso che morì di crepacuore dopo la barbara distruzione dell'abbazia. Appena tornato a Vienna, Wittgenstein, proprio nello spirito della Regola benedettina, rinunciò a tutte le sue ricchezze, _ che erano enormi, e fece il tenta-' tivo di entrare in un convento; ma, a quanto pare, l'accoglienza fattagli da un burbero portinaio lo indusse a ritornare sui suoi passi. Per un certo periodo lavorò come aiuto-giardiniere nell'abbazia di Klosterneuburg, alla periferia di Vienna. Russell, che lo rivide nel dicembre del 1919, scrisse: «Una certa aria di misticismo l'avevo già notata nel suo libro, ma sono rimasto sconcertato nello scoprire che è diventato mistico nel pieno senso del termine. Legge autori come Kierkegaard e Angelus Silesius e sta valutando seriamente l'idea di farsi monaco». Anche se non indossò lo scapolare, Wittgenstein divenne una specie di apostolo e di eremita nelle montagne intorno al Semmering. Là, come insegnante elementare, istruì per sei anni di seguito, e non sólo leggendo il Vangelo, i figli dei poveri contadini. Come sussidio didattico si serviva anche di un bastone: così, se proprio non gli riusciva di illuminare le teste, quanto meno le ammaccava. Ho conosciuto un suo ex allievo il quale, probabilmente con la testa ammaccata, mi ha detto: «Basta con questo Wittgenstein! Non se ne può più». Anacleto Verrecchia Ludwig Wittgenstein: la bibliografia sull'autore del «Tractatus logicophilosophicus» supera i seimila titoli. In alto, il campo di prigionia di Cassino