Peppe, vispa napoletana di Masolino D'amico

Peppe, vispa napoletana «I fantasmi di Monsignor Perrelli», aneddoti riuniti da Lambertini Peppe, vispa napoletana Uno strepitoso Barra nei panni della perpetua Méneca Ritmo, eleganza, voce: non è facile veder recitare così ROMA. Vissuto davvero, a quanto pare, nella Napoli di Ferdinando TV, famoso in vita per le sue castronerie, l'aristocratico prelato Monsignor Perrelli sarebbe diventato col tempo proverbiale, ricordato da cultori del folklore partenopeo come Benedetto Croce e Alexandre Dumas. A lui si attribuisce l'intenzione di allenare i suoi cavalli a mangiare sempre meno, nonché il dolore per la morte delle bestie «proprio quando stavano per abituarsi a non mangiare affatto». Si piccava di essere un «ommo 'e scienza», dalle originali teorie; spiegava la salinità del mare con la constatazione che il mare è pieno di acciughe, che sono notoriamente salate. Avendo smarrito e poi ritrovato la tabacchiera, era capace di scrivere una lettera alla marchesina nella cui dimora aveva pensato di averla perduta, esortandola a cercarvela e concludendo con un poscritto nel quale annullava il tutto. Personalmente ghiottissimo - «quanno vaco a tavola min voglio sape' niente!» - non metteva però in rapporto col cibo il pancione gonfio, e temeva seriamente di essere incinto. Tali aneddoti sono stati riuniti da Lamberto Lambertini in un lavoro intitolato appunto «I fantasmi di Monsignor Perrelli», visto l'anno scorso al Festival di Benevento e oggi assai felicemente recuperato al teatro Vittoria, dove si replica fino al 10 maggio. E' un testo breve (70' senza intervallo) e fatto di niente, gli episodi in questione essendo, come si sarà capito, popolarescamente ingenui fino all'insipidità: ma prezioso come pretesto di una nuova esibizione delle formidabili doti mimiche e vocali di Peppe Barra. Lambertini, che è anche il regista dello spet- tacolo, ha collocato il leggendario monsignore, uno svagato, assorto, allampanato, sorridente Patrizio Trampetti, e la sua unica interlocutrice e perpetua Méneca, in un ambiente disegnato da Aldo Cristini, una stanza un po' stralunata, vagamente d'epoca, con qualche allusione agli hobbies dell'eccentrico prelato, e uno strumento a tastiera sul quale egli ha la mania di cercare di riprodurre musicalmente certe parole che pronuncia o che sente. Méneca è lo strepitoso Peppe Barra, in abiti femminili e sotto una crocchia di capelli corvini. Dopo aver cantato in apertura una canzone di Ferdinando Russo sul mestiere dell'attore, o meglio, sul cuore che come l'attore «se traveste ogne mumento» - lo spettacolo è accompagnato da piacevoli musiche di Patrizio Trampetti e Savio Riccardi, lodevolmente eseguite dal vivo -, l'interprete ci regala una delle sue metamorfosi più strepitose. Questa Méneca non è infatti una macchietta, bensì un vero personaggio a tutto tondo: una popolana ignorante ma vispissima, molto spiritosa e provvista di un gusto addirittura sensuale per le prelibatezze della sua lingua. Ella un po' subisce un po' osserva le stravaganze del padrone commentandole a nostro beneficio, senza tuttavia riuscire a smuoverlo. Per esempio, dopo aver tentato invano di intenerire il monsignore sul fato dei derelitti cavalli ricorrendo alle lacrime, cerca di farlo ragionare sulla sua sbandierata avversione al cibo descrivendo, vero supplizio di Tantalo anche per gli spettatori digiuni, un sublime elenco di manicaretti napoletani. Questo è uno dei momenti memorabili della serata; un altro è un mono¬ logo della stessa Méneca, che racconta al pubblico un'altra sciocchezza del monsignore cercando di restare seria, ma continuando a scoppiare dal ridere suo malgrado. Tutta la prestazione di Barra è mirabile, per i ritmi, per lo sfruttamento di ogni minimo pretesto sonoro, anche, forse paradossalmente, per l'eleganza perfino sobria con cui egli rinuncia qualche volta a strafare. Veder recitare così non capita tutti i giorni; il pubblico se ne rende conto, e si comporta di conseguenza. Masolino d'Amico

Luoghi citati: Benevento, Roma