A Kabul, il giorno della vittoria

A Kabul, il giorno della vittoria Trionfo dei guerriglieri dopo 13 anni. Oggi dovrebbe insediarsi il Consiglio voluto dall'Onu A Kabul, il giorno della vittoria / mujaheddin rivali si spartiscono la città KABUL DAL NOSTRO INVIATO La «rivoluzione d'aprile» è finita il 25 aprile, dopo 13 anni inutili e disastrosi. La città è caduta ma è ora una pelle di leopardo le cui chiazze appartengono alle potenti fazioni, partiti, gruppi, bande armate che componevano la guerriglia islamica e che ora si fronteggiano, nemiche come sono sempre state. Il governo, il partito Watan ex marxista, si sono sciolti senza combattere, ma nessun governo è ancora pronto per sostituirli e la tensione è altissima, palpabile. Tirare le somme di questa giornata spasmodica è quasi impossibile nel momento in cui scrivo. Un cupo silenzio è sceso sulla città, interrotto soltanto da sporadici colpi d'arma da fuoco i cui echi rimbalzano lungo i contrafforti delle montagne. Alle 17, dopo l'arrivo delle colonne dei mujaheddin, la città si era fatta deserta, gli autisti afghani si rifiutavano di tornare nel centro, nelle vie trasformate in un'intricata rete di posti di blocco, con cui ciascuna delle fazioni cerca d'impedire all'altra di estendere il territorio conquistato. Mujaheddin nervosi, col dito sul grilletto, puntano il Kalashnikov e ordinano di tornare indietro. Nessuno sorride. Le notizie sparse che posso raccogliere sono troppo frammentarie e incerte per permettere di ricostruire la geografia di questo potere provvisorio che regna a Kabul. Lo Hezb-i-Islami di Hekmatyar avrebbe occupato il ministero dell'Interno e numerose caserme, inclusa la scuola della Zarandoja, la polizia del regime. Qui ci sarebbero stati scontri. Lo Jamiat di Masud sarebbe in possesso del palazzo presidenziale. Ma altre fonti dicono che laggiù ci sarebbe anche un gruppo dello Hezb. La televisione sarebbe in mano a Masud. Ed è stata la tv a comunicare che il leader dei moderati è il nuovo ministro della Difesa. Certamente lo è l'aeroporto dove, fino a che il sole non è tramontato, si sono susseguiti gli attcrraggi di elicotteri pesanti che portavano in città i distaccamenti dello Jamiat che avevamo incontrato a Nord, a Charikar e Bahgram. Ma sono stato testimone diretto degli avvenimenti che si sono succeduti nella zona nordoccidentale della capitale. Dal ministero degli Esteri, dove il ministro Wakil aveva apppena concluso la sua ultima confernza stampa, ancora ignaro, come noi, di ciò che stava accadendo alla periferia - erano circa le 11,30- una segnalazione mi aveva spinto verso il quartiere di Khair Khana, a due chilometri dal centro. I crocicchi erano già presidiati, al mio arrivo, da gruppi armati tagiki. Almeno 200 persone in pieno assetto di guerra stavano prendendo posizione c controllando tutte le macchine. «Siamo qui per mantenere l'ordine», dice il comandante Hanaga. Sono del gruppo Wahadat, che risponde agli ordini di Saijafar Nodali. Alleati di Masud, dunque. La gente svicola impaurita. Dopo qualche esitazione due di loro accettano di portarmi nella moschea del quartiere, dal cortile rigurgitante di armati in frenetico andirivieni. Lì comanda il generale Atomir, che accetta di incontrarmi. Faccia tagika bruciata dal sole, divisa mimetica dell'esercito, gradi regolamentari: questo è un pezzo di quella che fu l'Armata di Kabul, ma le sue milizie (dice 20.000 uomini) non hanno divisa e mi sarebbe difficile distinguerle dai mujaheddin. «Non siamo qui per combattere - dice brusco - ma per garantire la sicrezza della città». Quali rapporti con Masud? «Buoni, siamo in contatto permanente con Jamiat». E con Hekmatiar? «Se Hekmatiar attacca, noi difenderemo la città». E che ne pensa dell'accordo di Peshawar per un Consiglio dei mujaheddin? «Accettiamo quelle decisioni». Quando siete arrivati qui? «Questa mattina presto». L'esercito collabora? «Piena collaborazione. Abbiamo tutto ciò che ci occorre, dai Kalashnikov, all'artiglieria, ai carri armati». Tutto attorno i tetti bassi delle case sono presidiati da armati, i cortili sono formicai di turbanti e fucili. L'occupazione di Kabul è cominciata. Ma chi sono gli occupanti? La gente si rintana nelle case sbircia dalle finestre. Due raffiche di mitra di incerta provenienza provocano una scossa generale. A portata di tiro, sulla collina di Tahimani che sovrasta il quartiere, si vedono correre uomini armati che si appostano alle feritoie del forte. Passa un camion carico di mujaheddin. Chi siete? «Masud, Jamiat», gridano. Cento metri oltre bloccano la strada. Non si passa. Ma chi c'è sulla collina? Nessuno risponde. Solo noto che le canne dei fucili sono ora tutte girate da quella parte. Come arrivare lassù? Un ragazzo che mastica un po' d'inglese si offre come guida nel dedalo di vicoli e cortili che conduce fino ai piedi della collina. «Ma oltre non vi accompagno». E mi pianta in asso. Ci sono 50 metri di terreno scoperto, poi un doppio reticolato. Al di sopra, annidati in piccole buche, spuntano i fucili della prima linea. Mi avvicino alzando il quaderno di appunti, che per fortuna ha la copertina verde. Le mani alzate. «Sono un giornalista». Da lassù fanno segno di andare via. Ma qualcuno dagli spalti del forte grida un altro ordine. Un mujaheddin scende di corsa lungo il pendio, fino al reticolato, dove c'è un varco. «Pui è hezb, venite». Salgo di corsa, la schiena bagnata di sudore, non solo per la fatica. Nella prima casamatta mi fermano. Ad attendermi c'è il comandante mujaheddin: con Hekmatyar fin dall'inizio, dice. Sono arrivati da due sole ore. Ha la barba corta, perché? «Ragioni mimetiche - dice - fino a poche settimane fa stavo a Kabul come clandestino». Attorno alcuni giovanissimi soldati, tutti disarmati. Nessuno parla inglese, ma uno dei soldati ha studiato a Tashkent e traduce le domande dal russo. «Adesso la guerra non ci sarà. Hekmatyar ci ha detto che tutti i partiti saranno ugali. Siamo tutti afghani». Ma l'atmosfera non è quella della pace. Chi comanda qui? «Il nostro capo è Abdel Khafur». Portano acqua fresca. Arriva il comandante del forte, Jakar, e tutti si alzano in piedi. Lui non è Hezb, sta con Jabar, ma si vede che è il più alto in grado. La collina è occupata da una coalizione. Jakar ripete che «non ci sarà guerra» e che «l'accordo di Peshawar dev'essere rispettato da tutti». Conciliante. Che ne farete degli uomini del governo? «Se ne devono andare e basta». E di Najibuilah? Lo fucilerete? «Deciderà il popolo afghano». Ma la collina scotta, conviene scendere. Lungo la strada del ritorno è tutto un pullulare di mujaheddin. Kabul è ormai tutta nelle loro mani. Che ne è di Wakil? E del presidente di una sola settimana, Hatef? Dei membri del Consiglio militare? Nessuno sa dire nulla di preciso. I telefoni tacciono. Masud sarebbe furibondo per l'ingresso in città degli uomini di Hekmatyar. Dichara che c'è stato un complotto, un'intesa segreta tra gente del Watan e Hekmatyar per permettergli l'ingresso. Circola voce di scontri sporadici, ma i colpi sono rari. E' chiaro che ciascuno dei gruppi ha voluto conquistare posizioni in vista della trattativa finale. Così com'è chiaro che l'accordo di Pshawar ha impresso una svolta agli eventi. I moderati volevano anticipare rultimatum di Hekmatyar installando un Consiglio islamico che avrebbe reso impossibile, improponibile, impopolare un'offensiva contro Kabul. Ma Hekmatyar - forse davvero aiutato da un'intesa segreta con spezzoni del governò - ha risposto entrando in città prima dell'arrivo del Consiglio provvisorio. Minaccia: «Domani la città sarà mia». Abdul Wakil aveva detto di attendere in giornata l'arrivo da Peshawar di un gruppo di emissari del Consiglio provvisorio per il «trasferimento pacifico dei poteri». Ma esso è già avvenuto. Oggi si attende l'arrivo dei 51 membri del Con siglio provvisorio voluto dall'Onu. Al calare delle tenebre il cielo di Kabul si accende di un fantasmagorico, impressionante fuoco d'artificio, fatto di proiettili veri. Sparano tutti i partiti, in segno di festa. L'agognata Kabul, la meta dei loro desideri, il simbolo della loro battaglia, è tutta loro. Le file di traccianti rossi che salgono a centinaia da tutti i quartieri, da mille cortili, che s'incrociano soltanto lassù, dirette contro nessuno. Sembra un segno di pace. Per ore e ore, tutta la notte, centinaia di migliaia di proiettili saranno gettati al vento. Meglio così. Ma ne restano ancora milioni. Che da un'ora all'altra potrebbero cominciare a volare bassi, orizzontali, e a uccidere. Giuliette Chiesa Il leader radicale Hekmatyar minaccia «Domani la città sarà soltanto mia» \ Si teme che scoppi la seconda guerra tra i gruppi che hanno sconfitto i russi \ La folla festeggia l'ingresso dei mujaheddin a Kabul qui a fianco gli uomini di Massud davanti al palazzo di Najibuilah (dice 20.000 uomini) non hanno divisa e mi sarebbe difficile distinguerle dai mujaheddin. «Non siamo qui per combattere - dice brusco - ma per garantire la sicrezza della città». Quali rapporti con Masud? «Buoni, siamo glieria, ai carri armati». Tutto attorno i tetti bassi delle case sono presidiati da armati, i cortili sono formicai mujaheddin. Chi siete? «Masud, Jamiat», gridano. Cento metri oltre bloccano la strada. Non si passa. Ma chi c'è sulla collina? le buche, spuntano i fucili della prima linea. Mi avvicino alzando il quaderno di appunti, che per fortuna comandante mujaheddin: con Hekmatyar fin dall'inizio, dice. Sono arrivati da due sole ore. Ha la barba corta, perché? «Ragioni mimetiche - dice - fino a poche settimane fa stavo a Kabul come clandestino». Attorno alcuni giovanissimi soldati, tutti