A Kabul aspettando la grande guerra

A Kabul, aspettando la grande guerra I mujaheddin di Masud alleati coi governativi affrontano gli integralisti di Hekmatiar A Kabul, aspettando la grande guerra Karmal dietro al complotto che ha scalzato il Presidente La vita di Najibullah, ancora nascosto, è appesa a un filo REPORTAGE RESA DEI CONTI NELLA CAPITALE AFGHANA KABUL DAL NOSTRO INVIATO C'è una calma irreale, come se la città fosse consapevole di vivere ima breve parentesi di quiete, cui seguirà, ancora una volta, una tempesta di fuoco e di sangue. La grande partita finale è cominciata. Si sa già chi ha perduto, ma nessuno ancora può dire chi vincerà perché i pretendenti alla vittoria sono più d'uno e non sembrano disposti a dividerla. Il Tupolev dell'Ariana, aviolinee afghane, scende puntando diritto verso la pista. E' la prima differenza che colgo rispetto al mio ultimo atterraggio a Kabul, nell'ottobre di due anni fa. Allora il volo Aeroflot si era concluso in un pirotecnico effluvio di razzi termici destinati a dirottare i micidiali Stinger della guerriglia. A terra la seconda sorpresa. Accanto alla pista, ben visibili, drappelli di uomini armati dai lunghi capelli e «in borghese», cioè avvolti negli scialli color ocra della gente povera delle montagne. Altri ne nasconde un gruppo di elicotteri Mi-21, con le pale ancora rotanti, appena atterrati. Sono Mujaheddin che arrivano dal Nord, da Mazar-i-sharif, su velivoli del governo di Kabul. E sono anche uomini della milizia che fu fedele al governo centrale e che ora obbedisce ai generali - come Abdul Rashid Dostum e Sayed Mansur Noderi - che hanno siglato la tregua con Ahmad Shah Masud Masud, il leone del Panshir, l'uomo più forte della guerriglia del Nord, cui si stanno inchinando, una dopo l'altra, le province un tempo fedeli a Najibullah, colui che per 13 anni ha tenuto in scacco l'armata sovietica e che è sempre rimasto «sul campo», rifiutando di comandare i suoi uomini dal rifugio di Peshawar, in terra pakistana, è ormai virtualmente il padrone di Kabul. Le sue formazioni avanzate sono a meno di 5 chilometri dal perimetro difensivo esterno della capitale e non c'è il minimo dubbio che potrebbero entrare in città senza colpo ferire. Chi comanda a Kabul ha infatti dato ordine di ritirare tutte le forze progovernative dalla zona Nord. La conferma è venuta ieri dal ministro degli Esteri di Kabul, Abdul Wakil, in una conferenza stampa che ha illuminato alcuni aspetti di questo groviglio apparentemente inesplicabile. C'è un'intesa più o meno esplicita tra Masud e i reggenti di Kabul. Questi ultimi parlano ormai apertamente - per bocca di Wakil - di un «futuro governo di mujaheddin» o di un «consiglio provvisorio» cui affidare pacificamente il potere centrale. E', del resto, ciò che sta accadendo in tutte le province: da Kandahar, a Herat, a Gardez, Gazni, Nimroz, Kunduz, Badghiz, i poteri centrali accettano senza combattere l'arrivo dei vincitori. Nella maggior parte dei casi è una resa senza condizioni, ma incruenta. E' quanto cercano di ottenere anche i vacillanti reggenti di Kabul. Il gruppo di uomini che ha «rilevato» prowisoria- mente l'eredità di Najibullah non ha più alcuna carta da giocare. Il loro uomo più influente - tra i «civili» - sembra essere Farid Mazdak, mentre il comitato militare, che ha il vero potere, comprende Nabi Azimi (comandante della guernigione di Kabul), Asif Delawar (ex comandante di Kandahar) e il generale Olomi, legato alla famiglia reale. Tutti si descrivono ora come i dissidenti post litteram e nemici di Najibullah. Ma questo è meno rilevante di un'altra circostanza: sono quasi tutti dell'etnia Pashtun, maggioritaria nel Paese. E' questa, forse, l'unica carta che co¬ storo possono giocare insieme al Tagiko Masud, potente sul terreno, ma impossibilitato a tenere insieme il Paese proprio perché rappresentante di un'etnia minoritaria. Non a caso Abdul Wakil ha insistito ieri sul tasto della «unità e integrità territoriale del futuro Afghanistan». Comunque il partito Watan (patria, il nome con cui Najibullah cercò di laicizzare e riciclare il partito democratico del popolo afghano, responsabile diretto della rivoluzione di aprile e della tragedia durata tredici anni) dice oggi sempre per bocca di Wakil - di «non pretendere di essere rap¬ presentato nel futuro governo» e di voler soltanto «cooperare per la pace con i fratelli musulmani». E' la resa. Così Masud conta di usare l'esercito regolare - ancora bene armato - piuttosto che disgregarlo, contro il Pashtun Gulbuddin Hekmatiar, leader ultra fondamentalista dello Hezb-iislami (partito islamico), che preme su Kabul da Sud. Hekmatiar ha lanciato un ultimatum: o Kabul gli si arrende senza condizioni entro la mezzanotte di domenica 26 aprile, oppure lancerà i suoi uomini nell'offensiva finale. Ma è già chiaro che dovrà affrontare i cannoni di Kabul e le milizie di Masud e del partito Jamiat-i-islami (società islamica). Ieri il rappresentante dell'Orni, Benon Sevan, è corso a Charikar, sessanta chilometri a Nord di Kabul, per incontrare Masud e altri 100 capi della guerriglia. Si cerca di anticipare U precipitare degli eventi. Sevan è tornato dicendo che l'incontro è stato un «grosso passo avanti». Ma il piano di pace delle Nazioni Unite, che prevedeva una transizione pacifica attraverso l'abbandono da parte di Najibullah e un accordo tra le fazioni della guerriglia e il governo di Kabul, appare superato dagli eventi. Najibullah l'aveva assecondato in extremis, ma è stato tradito dai generali del suo partito. E caso niente affatto strano - circola voce a Kabul che uno degli artefici del complotto sia stato proprio il vecchio Babrak Karmal, tornato a Kabul per guidare la vendetta contro Najibullah. Salvare l'ex presidente appare ora impresa difficile, se non disperata. L'Onu gli aveva promesso un salvacondotto e ora sta facendo l'impossibile per mantenere la parola. Najibullah è ancora a Kabul, nascosto in un ufficio delle Nazioni Unite. Nessuno può avvicinarlo per non rivelare dove esattamente si trovi. Ma, se Masud sembra disposto a chiudere un occhio, Hekmatiar vuole il suo sangue. E l'accordo tra fazioni islamiche è più lontano che mai nonostante gli appelli di Iran e Pakistan a una transizione concordata e pacifica. L'atmosfera s'invelenisce di ora in ora. Ieri un ufficiale sanitario della Croce Rossa internazionale (di cui non è stato reso noto il nome e la nazionalità) è stato freddato, a Nord di Kabul, da un fanatico dello Hezb-i-islami di Hekmatiar. Giuliette Chiesa Tre mujaheddin del gruppo di Masud, il «leone del Panshir», pattugliano le vie di una cittadina appena conquistata [foto api