Nel ventesimo secolo a furor di popolo
Nel ventesimo secolo a furor di popolo PENA CAPITALE Nel ventesimo secolo a furor di popolo Robert Alton Harris è stato giustiziato. E' prevedibile che, in Italia, commozione e sdegno prevalgano nei commenti e nelle reazioni collettive; e questo porterà a trascurare alcuni dati significativi. Il fatto che la notizia di quell'esecuzione o notizie analoghe provengano da altri Paesi e da altri sistemi penali alimenta un equivoco: richiama una sorta di «zona arretrata» della democrazia e una condizione precedente il nostro grado di civiltà giuridica. Non è così: basti pensare che la pena di morte è regolarmente applicata in 106 Paesi, retti dai più diversi sistemi di rappresentanza; e, in particolare, negli Usa quella pena non è un residuo del passato che «sopravvive»: bensì, una misura re-introdotta quindici anni fa. Ovvero, qualcosa di cancellato (o sospeso) dall'ordinamento giuridico e, poi, ripristinato. «A furor di popolo», si può dire: e mai come in questo caso la formula risulta pertinente. E' provato che la grande maggioranza della popolazione americana è favorevole alla pena di morte; e, tra le motivazioni, tende a diminuire quella «utilitaristica» (la pena capitale come deterrente contro la criminalità), mentre cresce quella, per così dire, «etica» (la pena capitale come risarcimento sociale). Non è la prerogativa di una cultura da cowboy. Anche gli «italiani brava gente» sembrano rivolgere altrove i propri «buoni sentimenti». Un'indagine condotta nel 1982 dalla Doxa per conto dell'Istituto Cattaneo segnalava un 58% di favorevoli alla pena di morte «per crimini di eccezionale gravità»; e rilevava come tale percentuale superasse quella emersa da un'indagine effettuata nel 1953. E' questo, un dato particolarmente significativo: la fiducia nella pena capitale non è una conseguenza delI l'arretratezza, destinata a I scomparire con lo sviluppo | (economico e culturale, po¬ litico e giuridico); la pena capitale è, per un numero di individui che non tende a diminuire, uno «strumento di giustizia», apprezzato per la sua supposta efficacia: pratica o simbolica; come difesa contro la criminalità o come messaggio ideologico. I curatori di quell'indagine, Piergiorgio Corbetta e Arturo Parisi, scrivevano allora che in Italia la battaglia contro la pena capitale era «ben lontana dalla vittoria». A distanza di dieci anni, nessun dato segnala un'inversione di tendenza. Si potrebbe dire, anzi, che molti elementi - la crescita dell'insicurezza collettiva e le periodiche campagne sulla criminalità - autorizzino a ipotizzare un aumento dei fautori della pena di morte. Questo rimanda a una questione decisiva. Nel 1981, Norberto Bobbio affermava: «In materia di bene e di male il principio di maggioranza non vale». E' uno dei paradossi più complessi, e fertili, della democrazia. Una battaglia minoritaria non cessa di essere giusta perché minoritaria: si potrebbe giungere a dire che è vero il/contrario. E, tuttavia, non ci si può accontentare di sapere che una petizione popolare per l'introduzione della pena di morte - quale quella promossa nel 1981 dal msi - sarebbe bocciata in Parlamento, oggi come già allora. Non si può pensare di proteggere un «principio» fidando nel fatto che quella probabile maggioranza di fautori della pena capitale non trovi canali per esprimersi: qualunque sia la nefandezza che voglia esprimere. Si tratta, piuttosto, di evitare che una collettività frustrata si affidi alle soluzioni più atrocemente semplicistiche. Quella frustrazione nasce, sì, dall'inefficienza della macchina repressiva e giudiziaria: ma il ruolo che giocano i mass media nel creare allarme sociale e nel manipolare le ansie collettive, è davvero enorme. Luigi Manconi . oni
Persone citate: Arturo Parisi, Luigi Manconi, Norberto Bobbio, Piergiorgio Corbetta, Robert Alton Harris
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