«Questi intellettuali italiani ieri con le Br, oggi con la Lega» di Maria Grazia BruzzoneGiovanni Raboni

«Questi intellettuali italiani ieri con le Br, oggi con la Lega» Un articolo del direttore del Popolo, Sandro Fontana, accusa Ceronetti, Vertone, Raboni e Ottone. «Ribellisti e opportunisti» «Questi intellettuali italiani ieri con le Br, oggi con la Lega» ROMA. Da seguaci di Curcio ad ammiratori di Bossi, certi intellettuali italiani sono «incompatibili con la democrazia». Come già D'Annunzio e amici nell'Italietta giolittiana, e come gli altri che poco più tardi la spinsero nelle braccia di Mussolini. Il direttore de II Popolo Sandro Fontana attacca. Non ha gradito le critiche impietose che, fuori dai denti e dal consueto gergo della politica, Raboni e Vertone sul Corriere della Sera e Ceronetti su La Stampa hanno rivolto al sistema dei partiti. In un corsivo firmato Bertoldo, replica furioso dalle colonne del suo giornale. Accusando l'intellighenzia italiana di civettare oggi con la Lega come faceva ieri con le Brigate rosse, tutti pronti a saltare sul carroccio del vincitore. «Ribellisti e opportunisti» che, «mentre puntano l'occhio in maniera implacabile contro i difetti della democrazia, appoggiano l'orecchio a terra per sentire da che parte arrivano i cavalli dei nuovi padroni»: così li definisce Fontana che non esita a tirare nella polemica anche Piero Ottone reo, in un articolo sul Secolo XIX del 1987, di aver definito le Br «un modello di organizzazione e di coraggio» a fronte di una classe politica «priva di tradizioni di comando». Ma che dicevano di cosi grave gli articoli incriminati, per suscitare tanto furore? Giovanni Raboni sul Corriere tesseva l'elogio dell'instabilità politica, a una settimana da un voto i cui risultati giudicava - «per reazione istintiva» - «decisamente positivi». «Per decenni abbiamo sofferto le conseguenze di una stabilità che aveva assunto nel tempo (...) una predace rigidità cadaverica», era il giudizio del poeta che concludeva: «Un po' di instabilità ci riabituerà forse a comportarci, noi cittadini, come vivi che trattano altri vivi». Una settimana dopo sulla Stampa il letterato Guido Ceronetti, in un fondo intitolato significativamente «Partiti pazzi d'angoscia», andava anche oltre. Parlava della democrazia italiana di fine secolo come di una «estesa necropoli di imbrattamenti e profanazioni, abbandonata generosamente ai ladri». E, privo di ogni speranza, davanti al risultato-terremoto si chiedeva: «Dove sono i crolli, se non quelli del già crollato che continua per concorde finzione o collettivo acciecamento a passare per stante in piedi»? E ancora sul Corriere, Saverio Vertone prendeva le distanze dai dilemmi politici post-voto (dalle dimissioni di Forlani al confronto fra pds e psi, alle prossime nomine) impostando il suo fondo sulla falsariga del seguente quesito: «Interessante; ma è la risposta di un baco che mangiata la polpa, crede di essere diventato la mela e si considera insostituibile e saporito. Ma cambiando baco, che cosa cambierebbe nella mela?» Per concludere che «sarebbe inutile poi incolpare Bossi di aver mandato in frantumi il Paese», Dissacranti? Cinici? Antidemocratici? A Bertoldo non eran proprio andati giù. Soprattutto, pare di capire, non ha gradito il tono e il linguaggio. «Senso della misura e sorveglianza critica, una fede irriducibile nella libertà, molta tolleranza e, soprattutto, una ricerca paziente e incessante del consenso: sono proprio queste virtù dei democratici che raramente allignano in molti uomini di cultura cresciuti in ambienti ristretti, dove vige il criterio della cooptazione dall'alto e adusati, specie.se letterati, ad esprimere le loro opinioni in termini apodittici e carichi di significati simbolici». Era già successo, ricorda Fontana. Che cita «quando nel maggio 1915 l'Italia venne trascinata in guerra da un pugno di letterati guidati da D'Annunzio e Papini, contro il parere di un Parlamento definito "contenitore di anime morte" e il regno della mediocrità e della corruzione». Col risultato di 600 mila morti, tra cui 21 mila ufficiali, «l'intera classe dirigente che l'Italietta era venuta esprimendo». ■ Lo stesso nel primo dopoguerra. «Di fronte agli sforzi di emancipazione politica e sociale dei ceti popolari, la stragrande maggioranza degli intellettuali italiani non ha esitazione nel demolire una democrazia basata sui "partiti dèi ventre" (psi e Partito popolare) e nel predisporre la strada all'avvento del nuovo padrone», scrive Bertoldo il quale ricorda che su 3500 professori universitari solo una decina rifiutarono di giurare al regime fascista. Per non parlare del secondo dopoguerra. Quando, ancora una volta la democrazia attraversa un momento di difficoltà, «gli intellettuali italiani preferiscono imboccare la scorciatoia autoritaria. Non a caso coloro che avevano civettato con il terrorismo sono gli stessi che oggi tendono le orecchie all'avvento delle schiere, guidate dal professor Miglio che dal 1948 sogna la nascita della Seconda Repubblica autoritaria». Maria Grazia Bruzzone «Accusano la democrazia ma poggiano l'orecchio a terra per sentire da dove arrivano i cavalli dei nuovi padroni» Qui a fianSaverio Vertone A sinistra, Guido Ceronetti Sotto, Giovanni Raboni

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