Pampaloni si racconta: amori, pentimenti, letture Esce la nuova versione di «Fedele alle amicizie»

COSCIENZA DI GENO COSCIENZA DI GENO Pampaloni si racconta: amori, pentimenti, letture Esce la nuova versione di «Fedele alle amicizie» GFIRENZE ENO Pampaloni pubblica di nuovo a 74 anni Fedele alle amicizie, una specie di autobiografìa edita la prima volta da Camunia nell'84. Ma adesso è un altro libro (in uscita da Garzanti). Pampaloni ha tolto alcune pagine, ne ha messe altre, non c'è più una scansione solo cronologica ma una regia più rigorosa e segreta. Ha perfino un «hitroibo» e dei «Congedi»: «Non è un libromessa, ma un'intima celebrazione - dice l'autore -. Ha una sua ritualità laica». Un'autobiografia fatta di aneddoti e di ritratti, da Pintor e Ansaldo agli amati Antonielli, N'oventa e Olivetti. Numerose macchie nere sparse sul legno chiaro dello scrittoio sono ciò che più colpisce nello studio di Pampaloni, in via della Cernala: sono bruciature di «Gauloises», ma sembrano segni più misteriosi. Spieghi lei, Pampaloni, il suo libro. Nell'«Introibo» dice che Fedéle alle amicizie è certo «destinato all'oblio» e che questo le dà una «grande pace». Perché questo gusto di essere dimenticato? E' rassegnazione, piacere di sparire. Un tratto realistico. Scrive anche che (d'oblio è il perdono del Tempo». Perdono diche? E' Manzoni, il mio Manzoni. Perdono della colpa di vivere. Lei dice che si sente schernito «da una parte e dall'altra», citando Péguy. Chi sono queste parti? I cattolici osservanti e i laici infatuati. Mi sono anche diviso tra industria e letteratura. Sono stato per dieci anni al fianco di Adriano Olivetti, ho fatto il direttore alla Vallecchi e alla De Agostini, ora sono un barone della critica. Lo dico con ironia. Qua! è il suo metodo critico? E' un criterio personale, di gusto. Mi lascio influenzare dalle emozioni. Un metodo irrefutabile nonostante il decennio che abbiamo passato, di semiotica e strutturalismo. Diceva Contini: la critica è il critico. Non le piace la semiotica? Prescinde dal valore, non fa capire se Leopardi è più grande o no di Berchet o Aleardi. E' critica sul cadavere, non sul vivente. In un'opera conta l'armonia, la complessità ordinata dei valori stilistico-formali, etici e religiosi. E' soddisfatto della sua attività di lettore? Sì, anche se purtroppo sono costretto a leggere cose di scarso valore. Il panorama nuovo è povero: Mannuzzu è notevole, Marta Morazzoni mi piace, Paola Capriolo mi piace, sebbene tutti mi diano un po' sulla voce: è artificiale, dicono. Ma scrive bene. Se non scrivesse quelle pisciatine sul «Corriere»... C'è Lodoli, e sono appassionato di Antonio Fiore. Lei è pessimista come Bo, sulla poca qualità della narrativa attuale? No. Ci sono stati due fatti traumatici. Il primo è stata l'avanguardia, che ha cercato di spazzar via la tradizione. Il secondo è Umberto Eco, che ha portato la letteratura dell'ingegneria, del computer. Eco ha avuto un'influenza negativa, è una pietra d'inciampo. Dopo di lui i giovani si sono trovati alle spalle un vuoto e devono tornare a fantasticare, devono liberarsi del suo linguaggio freddo. Lei non ha mai avuto il desiderio di fare il narratore? Quando scrivo di critica, sento che sono impegnato con una buona parte di me stesso; quando scrivo queste cosine del libro, non dico che mi faccio il solletico ma capisco che ci sono tanti più bravi di me. E' una questione di allenamento e di natura. Questo libro l'ho scritto per desiderio di essere, per convincermi che non ho buttato via la vita. L'angoscia mi coglie molto spesso... Non ho buttato via la vita, però sento che avrei potuto realizzarmi in forme diverse. Come romanziere? Come professore? Credo di aver fatto benissimo a non entrare nell'Università. Ho il rimpianto di una non raggiunta sistematicità. Avevo in programma di fare una storia della prosa del Novecento, da Verga a Eco. Garzanti me la chiede spes- so... E poi ho avuto la batosta della depressione, a novembre. Sono stato due mesi in clinica. Tante lunghe ore a farmi le flebo. Ora se mi arriva un libro da leggere sono di nuovo felice, mentre prima mi veniva la nausea. Tutto mi mette disastro, diceva mio nonno. E' vero, era vero anche per me. Vive male nell'Italia di oggi? Chi ci avesse detto, dopo i sei anni di guerra che ho fatto, che saremmo arrivati a questo punto, gli avremmo sputato in faccia. Si ha un fastidio fisico. Firenze è una città dove non si conclude nulla. Dell'Italia non sopporto la volgarità, l'inconcludenza, l'indifferenza. Le cause sono il cattivo governo, l'egoismo, la mancanza di veri ideali. Un vizio antico, ma ora è a livello patologico. L'Italia è un deserto. Si ha la sensazione di una piccolezza, di una meschinità che forse neppure c'era durante il fascismo, che pure ha le sue colpe. Questa mia amarezza, malinconia, depressione, fa tutt'uno con il Paese. Lei è mai stato comunista? Se si pensa a quanto poco dramma in Italia c'è stato per il fatto più drammatico del secolo, il crollo deiì'Urss, si ha la sensazione del nostro vuoto. Io l'ho sofferto, questo crollo. Avevo fiducia nell'evoluzione democratica del comunismo e questa speranza è stata per noi l'unica giustificazione alla tragedia della guerra. Non sono diventato comunista perché avevo un'istintiva repulsione per la dittatura. Nel '45 a Roma, al ministero dell'Italia Occupata, lei incontra Miriam Mafai. Nel libro le dedica una poesia: «Sotto le tue palandrane sbiadite/ pungevano appena/ i piccoli seni..». In quel freddo la Mafai accettava la sua «manona maremmana» come una «stufa». Amore? La chiamavo «Tu»... «Aquelli come te andrebbe tolta la parola», mi diceva. «Aspetta almeno che arrivi l'ordine da Mosca», le rispondevo. Pampaloni, come definisce la sua vicenda politica? Sono un ex del Partito d'Azione con una vena religiosa olivettiana. Ho un ideale anglo-proudhonian-personalista: liberaldemocrazia anglosassone, socialismo utopistico, personalismo cattolico... Io sono considerato un critico multante cattolico. Non è vero: io mi definisco di cultura, non di fede cattolica. Nella storia c'è stato questo mutamento con Cristo, solo che il Regno che Cristo annunciava non c'è stato e non ci sarà mai, secondo me. Dio se ne frega. Desidera credere? Senza fede mi sento con le spalle scoperte, mi sento vumerabile. Padre Balducci dice che vorrebbe buttare una bomba sotto la cupola di San Pietro: mi fa ridere. Vuol dire che ha perso certi legami essenziali. Chi è Dio per lei? Dopo la morte non c'è nulla. Il Vangelo non parla di immortalità dell'anima ma dell'avvento del Regno, cioè della Resurrezione dei corpi. Metafora vana. Io cerco di vivere da storicista laico: come se Dio fosse. Le mie letture sono Pascal e sant'Agostino. Dio è il sentimento con cui l'uomo che vive nella storia si difende dalla storia, impedisce che si distruggano i valori che nella storia si è conquistato. Se Dio esiste, esiste come memoria eterna e universale. Una sorta di infinito computer. Non prega mai? Péguy non riusciva a dire il Pater Noster fino in fondo perché sentiva di non poter affermare «rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Era un eroe di onestà. Io non dico il Pater Noster. Non ho fede... Lo dico ogni tanto, perché l'ho nell'orecchio e nell'animo fin da quand'ero bambino. Claudio Alta rocca Al centro l'ampalont; qui a fianco Miriam Mafai; «un amore nella Homo V.5»; in allo, a destra Eco, «pietra d'inciampo» nella letteratura di oggi

Luoghi citati: Firenze, Italia, Mosca, Roma