L'imprendibile volpe afghana impallinata dalla perestrojka

L'imprendibile volpe afghana impallinata dalla perestrojka L'imprendibile volpe afghana impallinata dalla perestrojka I più pessimisti gli davano qualche settimana. Ricordo la sua risata metallica, che scoprì una fila di denti impeccabili, quando commento le profezie che lo davano per morto. 20 mesi dopo era ancora al suo posto. Nel marzo del 1990 aveva perfino rintuzzato il colpo di Stato che il suo ministro della Difesa, Shahnawaz Tanai, aveva preparato alle sue spalle, d'accordo con Gulbuddin Hekmatiar. Najibullah dalle sei vite, tante quanti sono stati gli anni del suo potere, cominciato nel maggio 1986. Aveva capito molto, anche se non tutto. A Mosca era giunto al potere un certo Mikhail Gorbaciov. E il 39enne Najibullah si era reso conto che la politica sovietica stava cambiando. Accettò saggiamente i segnali (e i consigli) che venivano dal Nord. Liquidò in fretta Babrak Karmal e lanciò la politica di «riconciliazione nazionale». Si rese conto che nessun leader afghano avrebbe potuto legittimarsi finché truppe straniere stavano sul suo territorio. E assecondò la manovra prudente che Gorbaciov stava progettando a dispetto dei suoi generali e della maggioranza del Politbjurò del Pcus. Nato e cresciuto nel Partito democratico del popolo afghano, marxista e leninista, l'ex studente di medicina, che vantava il suo ferreo ateismo, non esitò a sacrificarne nome e sostanza. Rinominò il partito come Watan (patria) e presentò da¬ vanti alle bocche dei fucili dei mujaheddin, impegnati in una «guerra santa» contro gl'infedeli marxisti, uno Stato musulmano, con una bandiera dove il verde di Maometto scacciava il rosso di Lenin. Quando ingaggiò i primi negoziati internazionali per l'uscita delle truppe sovietiche, un diplomatico americano disse che Najibullah era «un fenomeno: di una spanna più alto di tutti coloro che gli stavano intorno». Aveva capito perfettamente - come Gorbaciov - che la partita, cominciata da Breznev e Taraki nel 1978, era perduta. Lui non l'aveva condivisa, all'inizio, e, ancora giovanissimo, era stato mandato ambasciatore a Teheran. Ma poi - caduto Hafizzullah Amin sotto il piombo dei «ber- retti verdi» inviati dal Cremlino per «correggere» la situazione - era tornato alla testa della polizia segreta e vi era rimasto per cinque anni. Questo non gli hanno perdonato e non gli perdoneranno i vincitori che oggi assediano Kabul per anticipare il piano di pace delle Nazioni Unite (e per dividersi, sul filo delle spade, il potere). Najibullah si difese, un giorno, dalle accuse di efferatezze, dicendo con un sarcastico sorriso di avere fatto la stessa carriera del presidente Bush: prima alla Cia e poi alla Casa Bianca. Ma era una battuta per platee occidentali, pacificate dal digestivo dopo lauti pranzi, non certo per le bande lacere dei contadini torturati nella prigione circolare di Puli-Charki, progettata dai mancati conquistatori britannici. Il dottor Najibullah aveva capito molte cose, ma la ruota del tempo lo ha battuto d'anticipo. Avrebbe forse vinto lui se il progetto di Gorbaciov avesse retto. Ma lo stratega della ritirata aveva già dovuto abbandonare il Cremlino. E l'Urss è sparita d'incanto in un bosco nei pressi di Minsk. E gli Iliushin che portavano armi e farina - dal primo di gennaio 1992 - hanno smesso di scendere volteggiando nel cielo di Kabul. L'ultima mossa l'ha fatta pochi giorni fa: annunciando che si sarebbe fatto da parte quando l'Onu avesse varato un governo provvisorio. Ma era tardi, troppo tardi. Giulietta Chiesa

Luoghi citati: Kabul, Minsk, Mosca, Teheran, Urss