Angelo Rizzoli: solo io ho pagato davvero

Angelo Rizzoli: solo io ho pagato davvero UN TESTIMONE RACCONTA «Tra i condannati manca il mio nome; mi hanno tolto tutto, poi hanno detto che si sono sbagliati» Angelo Rizzoli: solo io ho pagato davvero «La Bonomipuò aver sbagliato ma non mettetela con gli imbroglioni» «Tassan Din per me è morto. Tutto finirà in una bolla di sapone» E JTROMA successo anche stavolta, non appena ha sentito la notizia delle condanne. «L'Ambrosiano ha cambiato la mia vita. Eppure, è come se vedessi questi ricordi proiettati su uno schermo». Allungato sul divano di casa, Angelo Rizzoli si appresta a rituffarsi nel passato con la metafora di un cineasta e il distacco di un estraneo. Due mandati di cattura, quattro celle scomode in quattro differenti galere e un proscioglimento quasi beffardo, arrivato quando l'impero di famiglia era ormai in briciole. Questo il conto che l'ex padrone del Corriere della Sera ha dovuto pagare al crack dell'Ambrosiano: «Mi hanno tolto tutto, anche un quadro da 4 miliardi, venduto a tre milioni. Poi mi hanno detto che non avevo fatto nulla, che si erano sbagliati. E allora, nell'elenco dei condannati manca un nome, il mio. Gli altri non hanno sofferto il carcere, né lo soffriranno adesso». Rizzoli socchiude gli occhi. Lo schermo si accende... LA BANCA. «Il primo ricordo che ho dell'Ambrosiano sono i fattorini. Le loro divise grigie e quelle cravatte che si alternavano come semafori: un giorno rosse e il giorno dopo verdi. La stanza di Calvi era all'ultimo piano. Un bunker. E, dietro la scrivania, quest'uomo misterioso. Non avevo ancora trentanni e conoscevo poco i banchieri. Ero stato costretto a bazzicarli dopo l'acquisto del Corriere della Sera. Mio nonno ci diceva sempre di stare alla larga dai banchieri, perché hanno la tendenza a diventare strozzini». «Così la mia esperienza si fermava a Raffaele Mattioli, mio zio - continua -. Un uomo dall'eloquio ricco, caldo, immaginifico. Questo Calvi, invece, sapeva parlare solo in tono allusivo. Le parole gli uscivano da un angolo della bocca, in frasi oscure e smozzicate: «quelli là...», «quelli delle tonache...», «come lei capirà...». Io, invece, non capivo niente: soltanto che quell'uomo non mi piaceva. Purtroppo era una potenza, non potevo farne a meno. CALVI. «L'unica persona simpatica era il direttore generale, Roberto Rosone, un milanesone vecchio stampo che qualcosa ha anche tentato di fare, tanto che si è preso una rivoltellata alle gambe da personaggi della malavita collegati in qualche modo proprio a Calvi. Ma all'Ambrosiano, purtroppo, comandava soltanto il presidente. Rividi Calvi nell'estate del 1981. Dopo il carcere a Lodi era diventato un uomo smarrito, sfuggente, braccato. Mi diceva cose che la settimana dopo si rimangiava. La sua parabola vitale si stava avvitando, come un aereo che precipita. Intorno a lui, adesso, c'erano avventurieri senza esperienza né scrupoli, come Pazienza e Carboni». TASSAN DIN. «Nell'elenco dei condannati c'è di tutto. Persone perbene e autentici crimi¬ nali finanziari. Il marchese Gallarati-Scotti è l'erede della grande tradizione aristocratica milanese. E Anna Beinomi, come mio nonno, ha fatto molto per Milano. Questa gente può aver sbagliato per eccesso di spregiudicatezza, ma non merita di essere messa sullo stesso piano di chi nella vita non ha fatto altro che combinare imbrogli. Tassan Din? Tassan Din per me è morto. La sua storia dimostra che la seduzione del potere e del denaro può condune un dirigente abile a scottarsi, come una farfalla in una lampada. Troppo avido? No, troppo gelido». CELLI. «Lo rivedo nella sua stanza all'hotel Excelsior, mentre mi dice: "a te ci vuole un managerre". Perché Gelli parla proprio così, come il portiere dello stabile accanto. Usa pochi vocaboli e appena si addentra in un ragionamento, non riesce a completarlo. Vantava le sue frequentazioni politiche, ma deve averne tratto beneficio solo per i suoi traffici. Infatti, si piccava di essere un grande competente di politica, ma le sue diagnosi erano come un discorso al bar: rozze ed elementari. Persino Cossiga, al confronto... Vedendo Gelli all'opera, mi sono reso conto che in questa società nulla è più superfluo della cultura». DE BENEDETTI. «De Benedetti è la vittima di un contrappasso. Negli ultimi quindici anni, il gruppo che fa capo a La Repubblica ha teorizzato che le competizioni fra i poteri finanziari si possono risolvere in tribunale, anziché sul terreno del libero mercato. Pei indebolire il Corriere della Sera?attaccarono me, l'editore, battendosi per la mia incriminazione. E stavolta, a torto o a'ragione, questa logica perversa ha colpito il loro, di editore. Esagerazioni? E' un fatto che Repubblica ha mia certa influenza sui magistrati e spesso se n'è avvalsa. Qualche volta anche a ragione, come nel caso di Mendella». «Non so se De Benedetti abbia mai minacciato o ricattato Calvi. Non li ho mai visti insieme, ma ho una testimonianza diretta di quanto i loro rapporti fossero difficili. Eccola. L'uomo di De Benedetti all'Ambrosiano era Francesco Micheli, attuale amministratore delegato della Finarte. Io gli diedi tutte le informazioni che potevo. Speravo davvero che De Beneddetti riuscisse a curare l'infezione del Banco. Ma Calvi aveva costruito una ragnatela in cui non era facile districarsi. E quando tornò alla ribalta, mi convocò nella sua casa milanese, in via Frua. Era il nove marzo 1982. Calvi mi aggredì in modo più gelido del solito, accusandomi di aver parteggiato per De Benedetti, contro di lui. Una scenata selvaggia. "Se ci riprovi un'altra volta fu la sua minaccia - ti giuro chu troverò il modo per buttarti fuori dalia Rizzoli". Cosa che i suoi successori hanno puntualmente fatto. Il mio arresto fu una brillante trovata del presidente del Nuovo Banco Ambrosiano, Giovanni Bazzoli, e di una parte della de: l'arresto era l'unico modo per sequestrarmi tutto, azioni della Rizzoli comprese». CLARRAPICO. «Era diventato l'uomo di fiducia di Orazio Bagnasco e questo è tutto quello che so di lui, riguardo all'Ambrosiano. All'epoca, non ero neppure al corrente che ci fosse di mezzo l'affare dell'acqua Fiuggi. Ricordo che venne molte volte a casa mia. Ciarrapico ha una vocazione naturale a fare da intermediario». L'EPILOGO. «Temo che tutto si concluderà in una bolla di sapone. Qualcuno è rimasto col piede nella tagliola, ma queste sono condanne simboliche: ferite gravi all'immagine e nulla di più. Il carcere lo faranno in pochi. La morale? Sono due. La prima ò una lezione emblematica per la Milano della finanza, che quando si abbassa ai giochini del sottobosco politico romano finisce per rimetterci le dita. La seconda morale è che i giornali sono come i fili dell'alta tensione. Chi li tocca muore. Non so se hanno ancora il potere di influenzare masse di lettori-elettori, ma la nostra classe dirigente è così antiquata da esserne convinta. Ed è questo che conta». Massimo Gramellini «Condanne simboliche ma è una lezione per la Milano della finanza. De Benedetti? Non so se ha ricattato» A sinistra in alto Anna Bonomi Qui sopra Carlo Caracciolo A fianco Francesco Micheli Al centro della pagina, Angelo Rizzoli Alla sua destra una foto che lo ritrae insieme a Bruno Tassan Din

Luoghi citati: Fiuggi, Lodi, Milano