De Benedetti, un giallo nel giallo di Ugo Bertone

De Benedetti, un giallo nel giallo Sentenza più dura della richiesta del pm: 6 anni e 4 mesi. Lo snodo cruciale del caso Cabassi De Benedetti, un giallo nel giallo Prosciolto da un reato, condannato per un altro MILANO. Ore dieci e undici: l'ingegnere De Benedetti Carlo è colpevole. Prima di lui il giudice Fabrizio Poppi ha già recitato 31 condanne e nessuno, nella numerosa squadra di collaboratori della Gir corsi nell'aula bunker davanti a San Vittore, si fa più illusioni. Ma l'emozione è forte lo stesso: il patron del secondo gruppo industriale italiano, più di 90 mila dipendenti, da ieri ha sulle spalle una condanna a sei anni e quattro mesi per un'accusa tremenda, la bancarotta fraudolenta, forse la più infamante per chi opera nella finanza e nei grandi affari internazionali. De Benedetti accoglie la notizia all'estero, pochi minuti dopo. E' partito da Torino la sera prima, «per affari». Il programma? Una pausa di vacanze, magari al mare prima di rituffarsi nella questione Olivetti. Ma la stangata dei giudici milanesi ha cambiato tutto. Scatta il piano di difesa sui mercati finanziari, si mettono in moto i ricorsi in appello. E lui, l'ingegnere, da ieri sera è di nuovo sulla plancia di comando per dirigere le operazioni dal quartier generale della Cir in via Ciovassino. Per ora non parla, lascia che siano gli avvocati a far partire l'offensiva legale. «Sentenza inaspettata e sconcertante» recitano in coro i legali dell'ingegnere. Dicono Giandomenico Pisapia e Marco De Luca: «Nel corso del dibatti¬ mento non è emersa una sola prova di corresponsabilità dell'ingegner De Benedetti nel dissesto del Banco Ambrosiano ed era lecito attendersi che venisse confermato il provvedimento assolutorio emesso dai giudici istruttori e le conclusioni favorevoli del tribunale civile, della procura generale presso la corte d'appello e di quella presso la Cassazione». Già, perché la condanna di ieri segna solo una tappa di un ping pong giudiziario che dura da parecchi anni, tra assoluzioni, accuse minori e nuovi colpi di scena. Ecco, i fatti, in sintesi. De Benedetti entra nell'Ambrosiano il 18 novembre dell'81 acquistando per 50 miliardi il 2% del capitale e ne esce 65 giorni dòpo, il 22 gennaio '82. In quei mesi l'ingegnere, come vicepresidente del Banco, ingaggia una dura battaglia con Calvi per aver risposte sui veri debiti del Banco. All'uscita, il presidente dell'Olivetti viene liquidato con 81 miliardi circa: una parte (54 miliardi) corrisponde alla cifra investita, un'altra (27 miliardi) li riceve in cambio di un pacchetto di azioni Brioschi, società del gruppo Cabassi, che lo stesso Ambrosiano si era impegnato a rilevare. Basta questo trattamento di favore, questo guadagno a pochi mesi dal crack del vecchio Banco, a giustificare l'accusa (e la condanna) per bancarotta? In questi anni la magistratura si è divisa: prima, all'inizio dell'inchiesta, il sostituto procuratore Pierluigi dell'Osso parla di «ingiusto profitto» per l'ingegnere, frutto di «una formidabile pressione psicologica» nei confronti di Calvi, ormai alle corde e chiede il rinvio a giudizio per estorsione. Poi, i giudici istruttori Pizzi e Brichetti si schierano per l'ingegnere che viene prosciolto dagli addebiti (è il 7 aprile dell'89) «perché il fatto non sussiste». Ma la battaglia del Banco si gioca su più fronti: prima pm e giudici prosciolgono De Benedetti dall'accusa di bancarotta, poi la procura presenta appello (ma l'accusa è solo di estorsione). Tanti episodi, tra cui la vittoria di De Benedetti, di fronte al tribunale civile, contro le pretese dei liquidatori, prima del colpo di scena. Il 5 marzo 1990 la sezione procedimenti speciali lo incrimina per bancarotta con tanto di mandato di comparizione. Nuove battaglie sul palcoscenico della Cassazione e della procura di Milano fino alla svolta del 12 marzo '91 in piena guerra per il controllo della Mondadori. «Sono sconcertato per un provvedimento ingiusto», si sfoga allora l'ingegnere. «Delusione, amarezza ma anche serenità, questo è il mio stato d'animo», dichiara ai giornali di fronte alle inattese contestazioni dei magistrati milanesi. E contrattacca con le sue verità. «Non fui io - dice - ad andarmene, ma fui costretto da Calvi perché contestavo la sua gestione». Falso, aggiunge, sostenere che da quell'avventura lui ne uscì con un profitto illecito. «Il patrimonio del Banco - replica alle contestazioni - con la mia uscita non ha subito alcun danno, neppure per una lira. Io ho solo conseguito la restituzione di quanto sborsato e dovuto. Per questo il provvedimento risulta incomprensibile e profondamente ingiusto». A queste considerazioni, da ieri, se ne possono aggiungere altre: il presidente della Cir, lasciano intendere i suoi collaboratori, ritiene che la «mazzata» in arrivo dai giudici non cambia assolutamente niente nei piani del gruppo né avrà conseguenze sull'attività operativa delle aziende anche perché l'interdizione dalle cariche sociali e dall'esercizio di imprenditore, pur prevista dalla sentenza, è già condonata. La guerra, insomma, è solo iniziata e proseguirà fino alla Cassazione e, magari, fino alla vittoria. Ma, per ora, la realtà è amara: la magistratura ha emesso il primo verdetto ed è un colpo destinato a lasciare il segno: in Italia ma, soprattutto all'estero. Bancarotta fraudolenta, soprattutto quando si parla di banche, è una condanna che pesa. Ugo Bertone

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