Tutti colpevoli ma dieci anni dopo di Susanna Marzolla

Tutti colpevoli, ma dieci anni dopo Nuovo capitolo nel crack Ambrosiano, le prime severe condanne dopo 199 udienze Tutti colpevoli, ma dieci anni dopo Bancarotta da 1000 miliardi per foraggiare la P2 MILANO. Sono pressoché attonite le facce degli avvocati mentre Fabrizio Poppi, presidente della terza sezione del tribunale, legge la sentenza che mette fine al processo (di primo grado) per il crack del Banco Ambrosiano. Mai viene pronunciata la parola «assoluzione»; è solo una sequenza di «dichiara colpevole e condanna». Per tutti. Per Carlo De Benedetti, che ha avuto 6 anni e 4 mesi. Per Giuseppe Ciarrapico condannato a 5 anni e 6 mesi. Per il vertice della Loggia P2: 18 anni e sei mesi a Licio Gelli, 19 anni per Umberto Ortolani. Per gli ex amministratori del Banco e per i funzionari dell'ufficio estero. Per faccendieri e simili. Tutti colpevoli, secondo la corte, di «concorso in bancarotta fraudolenta». Principi del foro di mezza Italia, parcelle miliardarie, arringhe appassionate: tutto infranto contro un muro di condanne che hanno ricalcato (in qualche caso anche leggermente inasprito) le richieste del pubblico ministero, Pierluigi dell'Osso. Che ieri, durante la lettura delle sentenza, si è ritrovato a fianco il procuratore capo, Francesco Saverio Borrelli: «Sono qui per testimoniare che in tutto questo tempo sono stato sempre vicino al collega dell'Osso». E' stata l'intera procura di Milano a raccogliere «i frutti di 10 anni di lavoro». Tanti ne sono passati da quando, nel giugno del 1982, Roberto Calvi sparì lasciando la banca di cui era stato presidente (e nei fatti «padrone assoluto») in pieno dissesto. Lui fu ritrovato pochi giorni dopo a Londra impiccato sotto il ponte dei «Frati neri», e ancora adesso manca una risposta precisa alla domanda: suicidio o omicidio? La sua banca, lo storico Banco Ambrosiano piantato nel cuore dèll'«operosa Milano», aveva un «buco» di oltre mille miliardi. Da allora sono seguiti anni di indagini per scoprire i mille canali da cui quel denaro era uscito. Finiti nel maggio del '90, quando era cominciato il processo. Un processo complesso, con 199 udienze, spostamenti della corte a Roma e in Svizzera, decine di sedute dedicate a sviscerare ogni singolo argomento. Alla fine di tutto questo, ieri la sentenza. La prima condanna, per pure ragioni alfabetiche, è quella contro Fausto Annibaldi: fa parte di quel gruppo genericamente definito dei «faccendieri». Quelli che si attaccarono al carro di un Calvi ormai in serie difficoltà, promettendo appoggi politici e finanziari in cambio di cospicui finanziamenti. Personaggi, per intenderci, come Francesco Pazienza, Maurizio Mazzotta e quel Flavio Carboni che accompagnò Calvi a Londra nel suo ultimo viaggio. Nomi ben diversi si ritrovano nell'elenco degli amministratori e sindaci del Banco Ambrosiano. Per lo più nomi di solida borghesia, e nobiltà, lombarda e veneta. Come Federico Gallarati Scotti, Gianpaolo Melzi d'Eril, Enrico Palazzi Trivelli, Mario Valeri Manera, Giuseppe Zanon di Valgiurata. E ancora Carlo von Castelberg, Giacomo di Mase, Stefano Marsaglia, Antonio Confalonieri, Mario Davoli, Francesco Monti e Giuseppe Prisco, avvocato e vicepresidente dell'Inter. Tutti condannati a pene dagli otto anni e due mesi in su per aver «concorso con Calvi nell'occultamento e comunque nella distruzione del patrimonio sociale dell'azienda». Per quanti di loro ebbero responsabilità operative, come Roberto Rosone e Carlo Olgiati, le pene sono state ancora più severe. La corte non è stata leggera nemmeno con i funzionari dell'ufficio estero del Banco: Adriano Bianchi, Alessandro Mennini, Giacomo Botta, Carlo Costa, Filippo Leoni. Perché furono loro, quantomeno con un colpevole «silenzio-assenso» a permettere a Calvi di spogliare il Banco a favore delle «consociate estere». Che altro non erano se non scatole vuote inventate all'uopo. Da quelle consociate partì poi il fiume di denaro verso il vertice della P2: ecco le condanne a Gelli e Ortolani; ecco i 14 anni a Bruno Tassan Din, «longa manus» della Loggia all'interno della Rizzoli, di cui era stato amministratore delegato. Infine, i grossi nomi dell'imprenditoria che ebbero rapporti (di finanziamento, di responsabilità di gestione) con un Banco Ambrosiano ormai boccheggiante. Come Orazio Bagnasco, entrato in extremis al posto di De Benedetti nel ruolo di vicepresi¬ dente. Come Anna Bonomi Boichini, che ricevette dall'Ambrosiano 10 milioni di dollari: e la Corte non ha creduto che fossero «la restituzione di un debito personale contratto da Calvi». Come Giuseppe Ciarrapico che ebbe dal Banco 39 miliardi: esattamente quanto gli serviva per acquistare l'Ente Fiuggi; soldi che ha restituito ma che, secondo il tribunale, aveva ottenuto «senza offrire le necessarie garanzie». Come, infine, l'ingegner Carlo De Benedetti che entrò nell'Ambrosiano nel dicembre '81 con la carica di vicepresidente e ne uscì 65 giorni dopo. Ma come ne uscì? I suoi guai giudiziari stanno tutti in 27 miliardi che l'Ingegnere ebbe andandosene dal Banco: erano il pagamento anticipato di azioni della Brioschi (una società del gruppo Cabassi) che la Centrale, finanziaria dell'Ambrosiano, si era impegnata a collocare sul mercato. Aveva diritto a quei soldi De Benedetti? E, soprattutto, poteva sapere che provenivano da una banca ormai in dissesto? E' un punto su cui la magistratura, prima della sentenza, si era divisa praticamente a metà. Tanto è vero che l'Ingegnere è finito sotto processo solo in base al ricorso della procura (che, in verità, gli aveva sempre contestato il reato di estorsione) mentre i giudici istruttori lo avevano prosciolto con formula piena. Ieri, anche per l'Ingegnere, la condanna. A cui si aggiungono, come per tutti gli imputati, le «pene accessorie»: interdizione perpetua dai pubblici uffici; impedimento, per dieci anni, a esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa. Sono pene più formali che reali perchè non immediatamente esecutive e comunque comprese nel condono. Mentre è concreto il rischio per tutti gli imputati di dover mettere mano al portafoglio: la corte ha decretato infatti un risarcimento provvisorio alla parte civile di cento miliardi. Il primo che ha cominciato, forzatamente, a pagare è Tassan Din: gli avevano sequestrato un conto di un miliardo e trecento milioni, il tribunale ha stabilito che venga «girato» alle parti lese. Più sferzante degli altri il suo avvocato, Gaetano Pecorella: «Una sentenza khomeinista. Fortuna che si sono dimenticati che c'è il taglio della mano». Se non «irati», quantomeno «amareggiati» e «increduli» si sono comunque definiti tutti i legali. Soddisfatto il rappresentante dell'accusa? Dell'Osso risponde diplomaticamente: «Io penso che un pubblico ministero il processo non lo vince e non lo perde, lo fa. Però il fatto che il tribunale, che ha vagliato ogni elemento fin nei minimi dettagli, abbia accolto la mia tesi è certo un motivo di soddisfazione». Così dice: e nell'aula-bunker, scelta solo per motivi di spazio, perché di detenuti non c'è nessuno, è l'unico che sorride. Susanna Marzolla

Luoghi citati: Fiuggi, Italia, Londra, Milano, Roma, Svizzera