Seduzioni a «Giro di vite» di Giorgio Pestelli
Seduzioni a «Giro di vite» Venezia, alla Fenice il capolavoro di Britten diretto da Bedford Seduzioni a «Giro di vite» Fin «troppo» bene trasferita in musica l'affascinante ambiguità di HenryJames Magistrali Kurt Streit, Nadine Secunde, lestyn Morris, EileenHulse, AnnaSteiger VENEZIA. Prima di alzare il sipario su questo «Giro di vite» di Benjamin Britten ripreso dall'Opera di Colonia, il Teatro La Fenice ha invitato il pubblico a ricordare con qualche minuto di raccoglimento Ettore Gracis, il direttore d'orchestra scomparso qualche giorno fa che tanto ha significato per la vita musicale veneziana; proprio al «Giro di vite», in una delle sue edizioni italiane più seducenti (alla Piccola Scala nel giugno '69), e poi in vari teatri italiani, in ultimo ancora a Trieste nell'84, Gracis aveva legato il suo nome e il suo stile, nel segno di quella malipieriana scioltezza e dinamica a tasselli tanto congeniale proprio a questo lavoro di Britten. «The tura of the screw», commissionato al compositore dalla Biennale Musica nel 1954, è un po' di casa a Venezia dove è tornato più volte dopo l'acclamatissima prima di quasi quarant'anni fa; non poteva dunque mancare nella stagione celebrativa del secondo centenario della Fenice, di cui anzi co¬ stituisce fin ora la realizzazione più felice per organicità di valori musicali e scenici. La direzione dello spettacolo è affidata a Stuart Bedford, un musicista che conosce a fondo e di prima mano il mondo di Britten: tempi, accenti, tensioni e distensioni, tutto s'ingranava con la sensibilità del tessuto strumentale solistico (onorato dai componenti dell'orchèstra del teatro veneziano) e con l'esplorazione di ogni possibilità della voce; in un'opera che è una perfetta macchina teatrale, riconoscendo alla regia di Michael Hampe e alle scene di John Gunter la massima fedeltà alle minuziose indicazioni del compositore e della librettista Myfanwy Piper, se ne ammette allo stesso tempo la bontà e l'infallibile presa sul pubblico. Il conflitto tipicamente inglese e vittoriano dell'istitutrice che contende a due spettri corruttori il possesso di due fanciulli (per loro conto non così innocenti come sembrerebbe, e qui sta il bello), ritrova così tut- to il suo mordente, con i calcolati e progressivi «giri di vite» della tensione e dell'emozione. Perno del lavoro musicale, a differenza del celebre racconto di Henry James che ha il suo cuore nella personalità dell'istitutrice, sono le quattro voci dei due fanciulli e dei due spettri: qui impersonati magistralmente da Kurt Streit (Peter Quint, che distilla il suo miele canoro come una sirena), Nadine Secunde (miss Jessel), lestyn Morris nei panni del tenero ometto Miles e Eileen Hulse in quelli della sorellina Flora; l'istitutrice è incarnata con impeto appassionato da Anna Steiger, trovando un contraltare in Phillis Cannan nella parte di Mrs. Grose, l'unica persona normale del gruppo, tagliata fuori dalle misteriose comunicazioni degli altri. Dopo la «prima» veneziana del 1954, Fedele d'Amico, che pure fu tra gli ammiratori più fervidi del lavoro, e fra i suoi interpreti più acuti, scrisse che bisognava ancora aspettare qualche anno prima di parlare del «Giro di vite» come di un capolavoro; dopo il collaudo di questi decenni, bisogna riconoscere che alcune pagine meritano in pieno gli allori di quel titolo: la scena del giardino, con l'esalare di una notte estiva piena di veleni, la dolciastra promiscuità delle cantilene di Quint e del piccolo Miles, il quadro domestico di Miles che suona il pianoforte per coprire la sorella che esce in cerca del suo fantasma. L'ascoltatore di oggi continua semmai a sospettare proprio l'abilità, la destrezza teatrale di Britten, quel suo riuscire «troppo bene» in qualunque congiuntura; ma di certo cade la vecchia accusa di aver materializzato quell'ambiguità in cui vive e respira il genio letterario di James. L'ambiguità si trasferisce nella musica: cosa c'è di meno realistico del canto, e in particolare di quel canto di Peter Quint, alleluiatico e orientaleggiante, che stende le sue ruote sulle «nursery rhymes» e sulle melodie elisabettiane intonate dagli stupefatti fanciulli? Come sempre, per chi vive nel fortilizio dell'Occidente, nella certezza dei suoi limiti razionali, la seduzione assume i colori e l'indistinto fluttuare dell'Oriente: basta questo nucleo di verità a prolungare la vita artistica del «Tura» di Britten. Giorgio Pestelli
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