Dopo «Balla coi lupi» diventano moda i film sui pellirosse: ma sono ambientati nelle riserve degli Anni 70

INDIANI l'ultimo rimorso di HollywoodDopo «Balla coi lupi» diventano moda i film sui pellirosse: ma sono ambientati nelle riserve degli Anni 70 INDIANIl'ultimo rimorso di Hollywood LOS ANGELES. C'era da aspettarselo. Un film ottiene successo in ogni Paese del mondo, porta a casa una valanga di Oscar e Hollywood, puntualmente, si butta sul nuovo filone. A un anno dal trionfo di «Balla coi lupi», ecco dunque che nei prossimi mesi avremo almeno una mezza dozzina di film sugli indiani d'America. Ma mentre Kevin Costner ha prodotto un film storico e romantico che ha saputo esorcizzare i sensi di colpa degli americani offrendo il comodo cuscinetto di 100 anni di distanza, i figli di «Balla coi lupi» sono perlopiù ambientati nelle riserve indiane dei giorni nostri. Con registi e produttori come Robert Redford, Robert De Niro e Oliver Stone ripropongono agli occhi del Paese che preferisce fingere di non sapere le condizioni di ingiustizia e povertà in cui versano oggi i popoli che per secoli hanno dominato le Americhe. Il primo a uscire è stato «Thunderheart», un progetto che ha alle spalle De Niro come uno dei suoi produttori. Siamo negli Anni 70, nel pieno dei fermenti nazionalisti e ribelli che infuocavano allora nelle riserve indiane. Due agenti del Fbi, interpretati dàuSam Shepard e Val Kilmer vengono inviati a compiere indagini su un assassinio. Kilmer nel corso dell'inchiesta scopre il proprio sangue indiano e le proprie radici, sotto la guida di Graham Greene, il «medicine man» che in «Balla» è il primo a stabilire un rapporto con Costner. A dirigere «Thunderheart» è stato il regista inglese Michael Apted, impegnato in questi giorni con l'uscita in contemporanea di tre film. In uno di questi, «Incident at Oglala», troviamo il Fbi sulle tracce di un assassino. Ma questo è un documentano, una storia vera fondata sull'incriminazione dell'attivista Léonard Peltier per avere assassinato due agenti federali durante gli incidenti di Wounded Knee nel 1975. Peltier, che ha sempre negato le accuse come una montatura per punire la sua attività politica, ha saputo raccogliere attorno alla sua causa intellettuali, politici, uomini di spettacolo. E uno di questi è Robert Redford, che figura come il produttore esecutivo oltreché il narratore fuori camera. E che, quando parla degli indiani, ritrova quell'entusiasmo per il cinema che da anni sembra avere perso. E' dal 1981, da quando ha avuto l'occasione di visitarlo in prigione per la prima volta e si è convinto della sua innocenza, che Redford cerca di fare riaprire il processo a Peltier. Si è accorto però che usando le leve del sistema giudiziario non sarebbe andato a parare da nessuna parte e così ha deciso che la maniera più efficace per difendere Peltier era un documentario. Ma anche questo non è stato facile. Intanto, c'era Oliver Stone, intestarditosi a voler produrre la stessa storia usando le stesse fonti. Una volta che Stone ha accettato a denti stretti di farsi da parte, ci si è messo quindi il Fbi, che ha negato a Redford di filmare Peltier in carcere. Possono solo le organizzazioni giornalistiche, gli hanno detto. Redford a quel punto ha pensato che avrebbe potuto facilmente aggirare l'ostacolo servendosi di uno dei tre network nazionali e alla fine, si è rivolto alla Bbc. Il protagonista de «La stangata» figura anche come produttore di «Dark Wind», un poliziesco ambientato nel conflitto che divide gli indiani Navajos dagli Hopi e che ha visto le due tribù affrontarsi oltreché sullo schermo anche nella realtà. In settembre Redford inizia poi un altro film che verrà girato nelle terre dei Navajos. Si chiama «The thief of times» e questa volta si impegnerà direttamente alla regia. Attivo nella causa degli indiani d'America da oltre 25 anni, Redford non può venire accusato di voler sfruttare la «moda» degli indiani. Dice di non essere per niente sicuro del fatto che tutti questi film potranno trovare un pubblico. «Adesso, dopo "Balla", l'attesa è grande - sostiene -. Ma come molte cose in America, potrebbe improvvisamente calare. I "native americans", in generale, sono stati trattati con grande disinteresse, che è indicativo della nostra superficialità. E non so se la gente verrà a vedere questi film». La lista continua tuttavia ad allungarsi. In estate uscirà «The Last of the Mohicans», diretto da Michael Mann e interpretato da Daniel Day Lewis e, tra gli altri, da Russel Means, leader della rivolta di Wounded Knee nel 1973 e già candidato alle elezioni presidenziali. Means sostiene che «Balla coi lupi» è «il film più razzista prodotto a Hollywood dai tempi di John Wayne». Ha anche organizzato uno sciopero delle comparse indiane durante la lavorazione dell'«Ultimo dei Monicani» ma ora si dichiara molto orgoglioso per aver preso parte al film «dove finalmente ci trattano come esseri umani». Rappresentati per anni come selvaggi che scalpano le teste degli innocenti e emettono urla animalesche, i popoli indiani sono divisi. C'è chi è orgoglioso per il fatto che, finalmente, Hollywood cerca di raddrizzare i torti del passato e di affrontare il soggetto senza fare ricorso a falsi stereotipi e luoghi comuni. Ma c'è chi sostiene che resta ancora un bel po' di strada da percorrere e fa notare che in tutti questi film, come del resto in «Balla coi lupi», gli indiani non hanno mai ruoli da protagonisti. Anche Redford, che pure ha dedicato mesi alla ricerca di un attore pellerossa per «Dark Wind», alla fine ha deciso di affidare il ruolo del protagonista a Lou Diamond Philips, che è in parte Cherokee. E Rodney Grant, l'indiano che in «Balla coi lupi» recita la parte del guerriero che all'inizio vuole far fuori Costner, accusa: «A Hollywood non è cambiato niente». Bob Hicks, ex direttore dell'American Indian Registry, un'organizzazione che incoraggia l'assunzione di indiani nel mondo dello spettacolo, è d'accordo e sostiene che perché questo accada occorre che spuntino fuori indigeni in grado di esercitare una parte attiva come produttori, sceneggiatori e registi. «Non possiamo dipendere da Hollywood, dobbiamo sviluppare i nostri progetti - sostiene -. Dobbiamo trovare il nostro Spike Lee». Lorenzo Sona INDIANIl'ultimo rimorso di Hollywood De Niro ha prodotto «Thunderheart» ambientato nelle riserve degli Anni 70 Robert Redford impegnato nella riabilitazione di Léonard Peltier, accusato di omicidio Graham Greene è il più noto indiano del cinema americano ed ora è ancora un po' disorientato: recita da 17 anni ma nessuno gli aveva mai offerto tanti film