BECKER dal set all'eternità

BECKER dal set all'eternità Lo scrittore tedesco Walser spiega la «religione del tennis» e il suo idolo Boris BECKER dal set all'eternità BORIS Becker non è una macchina da combattimento. Non è Ivan Lendl. E' molto più vulnerabile. I Nel 1991 si è ritirato da sette tornei. In un solo anno! Ma questo lo rende soltanto più prezioso. Quando nel gennaio 1991 subentra a Stefan Edberg al primo posto nella classifica mondiale, dichiara che probabilmente non resterà a lungo il numero uno. In ogni caso non tanto quanto Ivan Lendl negli Anni 80. Ivan Lendl è una macchina da combattimento, un fanatico della resistenza, un miracolo di «fitness», un monumento tennistico fatto di materiale durissimo, indistruttibile. E' più o meno tutto quello che non è Boris Becker. Ivan Lendl lo si può seguire sul campo senza provare alcuna emozione. Basta l'ammirazione. Già con Stefan Edberg, che aveva soffiato a Lendl la prima posizione, il coinvolgimento emotivo era inevitabile. Devo però riconoscere che Lendl, dopo essere stato stracciato due volte da Becker a Stoccarda, pareva per la prima volta quasi bello. Insomma, per sembrare bello Lendl ha bisogno di pesanti sconfìtte. «Maledizione che idiota!» C'è un unico sportivo che finora ho trovato interessante quanto Boris Becker: Pirmin Zurbriggen. Non ho mai mancato un solo appuntamento con questo miracolo sciistico del Vallese. Quando, dopo una slalom gigante, chiesero a Zurbriggen come si spiegasse il suo tempo fantastico, non rispose che aveva lottato, dato tutto se stesso, disse: «Credo di aver frenato troppo poco». Da quel momento non ho più smesso di seguirlo. Naturalmente attraverso la televisione conosciamo i tennisti molto meglio degli sciatori. Alla fine, la tv l'hanno inventata solo per trasmettere le partite di tennis. Due primi attori, un palcoscenico ben delimitato. La pallina che vola da una parte all'altra: un motivo magico-drammatico. Il dialogo delle due facce, dei due corpi, delle due racchette. Il meglio di sé la televisione lo dà nel tennis. A mio avviso. Drammi senza parole. Boris Becker è l'eccezione. Mentre gioca insiste nel suo monologo. Non sono soltanto esclamazioni di rabbia, di stizza, di disperazione. A volte le sue labbra non smettono di parlare, di recriminare, di imprecare. Impreca sempre contro se stesso. «Maledizione, che idiota!» gridò nel cielo di Parigi, quando buttò via il primo set nella semifinale contro Andre Agassi, sul punteggio di 5-5. Andre Agassi, tutt'altro che intro- verso, in una situazione simile si lascia sfuggire un: «Oh, boy!». Solo quando soffre, sappiamo chi è, che cosa pensa, che cosa sente. Purtroppo. La fortuna e il successo non hanno espressione, nemmeno nel tennis. Per nostra fortuna quando vince un incontro, il successivo sarà uno di quelli che non ha ancora mai vinto. Anche in questo torneo parigino. Eccoci dunque alla semifinale contro Andre Agassi e al suo: «Maledizione, che idiota!». E perde. E' fuori. E di nuovo non ha vinto sulla terra battuta. Ma sa essere un perdente di razza! Il braccio intorno alle spalle di Agassi, la testa inclinata contro quella dell'avversario, Becker lascia il campo. Di solito è il vincitore che si accosta allo sconfitto per chiedere simpatia. BB su AA dopo la partita in cui BB ha guadagnato un solo set e perso tre break: «Io avevo delle possibilità, ma lui ha giocato palle impareggiabili». Verso la fine del '91 AA batte BB a Francoforte. La serie è iniziata a Indian Wells nella primavera del '90. I due sembrano amici. Boris Becker (Parigi, 1991): «E' un'amicizia sempre più profonda». Ed è quest'unico amico fra tutti i suoi avversari che, fino al novembre '91, l'ha battuto cinque volte di seguito. Nessun altro tennista al mondo ci è mai riuscito. BB chiama AA il suo «black borse». Ma non vuole saperne di tradurlo con il suo «spauracchio». Anche questo è tipico di Boris Becker e in qualche modo sensazionale: il rapporto tra l'arrogante AA, il punk del tennis o l'uccello paradiso, e BB, bello nella sua soffe¬ renza, la versione teutonico-nazarena di Achille. Boris Becker si preoccupa anche del «Tennis-Deutschland» (l'espressione l'ha coniata lui). Probabilmente non ci sarebbe mai arrivato, se non ci fosse stata Steffi Graf. Per me non c'è l'uno senza l'altra. Non solo i successi, ma anche gli inaspettati, inspiegabili insuccessi li ottengono insieme. E allora il famoso diritto della tennista fallisce. Basta. Due temperamenti del genere sono al di là di ogni immaginazione. Nessuno può dominarti. Quando Steffi Graf, dopo una sconfìtta, scappò via per sottrarsi alle interviste, Mamma Tv pontificò che non stava bene rifiutare un'intervista alla tv tedesca. Abominevole arroganza dei «media». D'altra parte Steffi non è mai stata così bella come dopo la secca sconfitta contro Monica Seles a San Antonio. Mentre il viso della vincitrice si sfigurava nella risata, Steffi guardava nella macchina da presa come verso il sole, ma il sole lo aveva alle spalle. Quello sguardo che cercava protezione... mdimenticabile. Sugli astri del tennis si potrebbe fondare una religione facile, leggera. Anzi, si dovrebbe. E soprattutto adesso. Abbiamo già perso fin troppo tempo con le religioni tormentose. Ecco finalmente una religione senza doppio fondo. Quel che si vede, è che quel che si vede e basta. Da essa si ricava qualcosa solo quando la si pratica: sul campo. E' una religione che non va più lontano di una pallina da tennis. Il dio della nuova religione: la pallina da tennis che vola da una parte all'altra del campo. Leggera, chiara e pelosa. Dura e morbida insieme. Inchinarsi a essa fa bene. Giocando, si può fondare un'etica sugli imperativi della pallina in volo. Per amor suo bisogna essere flessibib e concentrati. Un arco che si tende e una freccia che scocca. Ma si tratta di un gioco. Questa è la novità nella religione della pallina che vola da una parte all'altra. La pallina in volo è così affascinante che per essa non occorre diventare missionari. Non sono richiesti apostoli. Lungo la sua traiettoria si instaura un legame fra due o quattro persone, Il sesso non conta, la nazionalità nemmeno, anche la razza e la classe sono finalmente superate. La pallina in volo emana un infinito potere emancipatorio. Il rapporto di Becker con la pallina da tennis non induce solo me a simili considerazioni: lo testimonia una nota dell'Agenzia Dpa sulla performance emotiva di Becker a Parigi durante il torneo Open di cui si è detto. Becker era «in uno stato da far pietà, un guerriero zoppicante, una volpe che fiuta le sue possibilità, un ri¬ sorto circonfuso da radioso splendore che esultando tende le braccia verso il cielo». Può darsi che da bambini si sia avuto molto a che fare con gli angeli - è il mio caso - per trovare così adorabile Becker. Il Beato Angelico ha ritratto questo genere di angeli. Per poter dipingere le pale d'altare Boris oppure Steffi, bisogna saper dipingere le ciglia, rossicce e biondissime, con le superiori che quasi s'impigliano in quelle inferiori. E poi bisogna saper restituire quello sguardo di Boris che racchiude sempre tutto contemporaneamente: innocenza, sfrontatezza, gelo, ardore, sarcasmo, ira e dolore. La bocca un po' troppo grande decide di volta in volta quale sarà il sentimento dominante. Quando Boris Becker vince pare il figlio di Kirk Douglas o di Burt Lancaster. Quando perde pare Boris Becker. Ciò che affascina nelle divinità del tennis: non c'è in loro traccia di qualche cosa di più alto. Sono in tutto e per tutto terrene. Lo sguardo del campione Mi rendo conto che questo mio atteggiamento concorre a promuovere il culto del campione. D'altra parte mi parrebbe disonesto negare, nascondere, reprimere la mia adorazione per Steffi Graf e Boris Becker. Mi piace adorare, lo ammetto. E non sono mai riuscito a guarire da questa mia debolezza. Ho analizzato la mia adorazione, ho domandato agli altri che cosa provano loro. Ad esempio quando la Graf e Becker entrarono in finale a Wimbledon nell'89. Domandai a un vicino, uno spettatore molto freddo, che cosa avrebbe provato se due tedeschi avessero vinto Wimbledon. La risposta: «La nazionalità non conta. Basta che vincano i migliori». A quel punto non ebbi quasi il coraggio di confessare che io avrei preferito se avessero vinto Steffi Graf e Boris Becker. Non credo che esista il migliore o la migliore. Ma so benissimo chi preferisco. Quando abbiamo noi la racchetta in mano, fantastichiamo di colpi meravigliosi come i suoi. E miglioriamo perfino la nostra tecnica. E quando lanciamo la palla per il servizio, ci vediamo davanti Boris Becker. Come arrotola la lingua che pare un mozzicone di sigarette all'angolo sinistro della bocca. Come si piega prima di battere, e ancora si piega fino a spezzarsi e poi colpisce. «Ace» o errore. «Una finale come questa la decide lo spirito», ha detto. Ecco probabilmente il motivo per cui il tennis è così affascinante: un combattimento fisico deciso dallo spirito. E senza spargimento di sangue (a parte le ferite al ginocchio che Becker si procura con i suoi tuffi). La tv, che di solito ci propone sparatorie, orge esplosive, uragani di terrore, quando ospita la pallina in volo da una parte all'altra del campo diventa un luogo di pace. Certo, dopo, parecchi fra i vincitori sono soliti stringere il pugno in un gesto che ha qualcosa di atavico, ma forse si imporrà il gesto di Becker: la mano tesa verso l'alto con le dita allargate. Un gesto liberatorio. E quando perde: quel suo essere se stesso, quel suo afflosciarsi su se stesso. Al pubblico basta il vinci-' tore. Lo sconfitto vede l'avversario portato in trionfo dagli applausi degli spettatori. Forse pensa: vincere non è un'esperienza, lo è solo perdere. E' questo che viene in mente assistendo alle vittorie e alle sconfitte di Boris Becker. Una cosa è certa: per noi, suoi spettatori, Boris non perde nulla quando perde un torneo, anzi. Martin Walser [Traduzione di Ada vigliarli]

Luoghi citati: Francoforte, Indian Wells, Parigi, San Antonio, Stoccarda