Tra i film australiani in competizione alla Settimana internazionale di Verona per il Premio Stefano Reggiani

Cercare se stessi all'Altro Mondo Tra i film australiani in competizione alla Settimana internazionale di Verona per il Premio Stefano Reggiani Cercare se stessi all'Altro Mondo Un Paese che appare ancora di frontiera e di fughe VERONA. Il protagonista di «Struck by Iightning» (Colpito dal fulmine), un insegnante di ginnastica critico verso il sistema scolastico e dedito ad allenare handicappati, è australiano: però si chiama Cannizzaro. I registi del cinema australiano sono anche polacchi, ungheresi, norvegesi, oppure nati a Saigon. Una donna giapponese che non può né vuole adattarsi ai costumi dell'Australia dove vive per via di matrimonio è la protagonista di «Aya» di Solrun Hoaas. A Sydney, al caffè «Cappuccino» che dà il titolo a un film di Anthony Bowman, i proprietari del locale dove si riuniscono attori velleitari o frustrati sono naturalmente italiani, ma il barista è asiatico e le battute suonano terribili: «Sono astigmatico, il che vuol dire che ho le astigmate». Il nonno affettuoso che in «Father?» (Padre?) di John Power (proprio come in «Music Box» di Costa Gavras) si rivela esser sta¬ to un sadico massacratore nazista, abita nell'Australia urbana, ma naturalmente è tedesco, e perdipiù interpretato da un attore svedese come Max von Sydow. Dai film australiani in competizione per il Premio Stefano Reggiani nella rassegna monografica «Cinema agli antipodi» della ventitreesima Settimana cinematografica internazionale di Verona, film non tutti recenti e spesso già visti ad altri festival, l'Australia ancora appare come un Paese di fughe e di frontiera, una mescolanza di etnie e di culture che stentano a integrarsi, un Altro Mondo sempre in cerca d'identità. E ancora appare fortissima nei film la presenza di quel paesaggio-identità che rende immediatamente riconoscibile il cinema australiano: «Grande invenzione, autentico marchio stilistico e narrativo», scrive in catalogo Filippo D'Angelo. «Universo mai posseduto nel quale sentirsi perennemente ospitati anche perché qualcuno - gli aborigeni - lo ha abitato prima». Quindi l'impressionante deserto rosso, la sterminata ventosa rovente sabbia minerale di «Dusty Hearts» (Cuori nella polvere) di Pauline Chan. Quindi le repentine grandi piogge, i diluvi improvvisi e torrenziali, lavacro della confusione in tanti film e anche in un film che sta per uscire in Italia, «Waiting» (Amiche in attesa) di Jackie McKimmie, storia d'un parto per procura vissuto collettivamente da un gruppo di amiche e d'un disordine sentimentale dominato dal ventre gonfio, pesante, simbolico della giovane madre futura. Quindi i cieli aperti, vasti, sconfinati, d'un azzurro traslucido attraversato da nuvole abbaglianti. Quindi la sempre strana inversione per cui in Australia al Nord fa caldo mentre al Sud fa freddo, e l'anziana coppia di pensionati che vuol reinventarsi una vita più bella libera dal lavoro in «Traveling North» (Viaggiando al Nord) di Cari Schultz, si trasferisce appunto in un settentrione tropicale con palme e fiori carnosi, sulla riva d'un lago popolato di cigni neri e di ibis. L'identità fisica è netta, l'identità etnica è mista, l'identità culturale è proba come in ogni società frammentata che debba esser tenuta insieme: l'architettura dei buoni sentimenti, la democrazia della critica sociale, la didattica dei dilemmi morali popolano i film. L'Australia produce ogni anno circa venti lungometraggi ben confezionati, d'una classicità di immagini, trame e personaggi ispirata al cinema in¬ glese e americano convenzionale; il grande momento del cinema australiano risale agli Anni Settanta; poi molti degli autori più bravi o più commerciali (Peter Weir, Bruce Beresford, Fred Schepisi, Philip Noyce, George Miller, Peter Faiman) sono emigrati a lavorare in America; altri (Gillian Armstrong) si sono un poco scoraggiati. La rinascita comincia adesso con una nuova generazione di cineasti, con l'aiuto finanziario dello Stato, con una tendenza al documento sociale di cui sono portatrici soprattutto le molte registe, con la rivelazione d'una personalità straordinaria come quella di Jane Campion, la regista (nata in Nuova Zelanda) di «Sweetie» e di «Un angelo alla mia tavola»: ma, a giudicare dai film visti a Verona, la via della resurrezione dev'essere ancora lunga, e accidentata. Lietta Toma buoni Jane Campion, regista dalla personalità straordinaria: ma la via della rinascita cinematografica australiana è ancora lunga