Roubaix un gioco al massacro
Roubaix, un gioco al massacro Infortunato Argentin, tutte le speranze italiane su Ballerini e Cipollini Roubaix, un gioco al massacro A dodici anni dal trittico di Moser COMPIEGNE DAL NOSTRO INVIATO La Parigi-Boubaix è un'esagerazione, un eccesso del ciclismo. Non è una bella corsa: è un tipo. La Parigi-Roubaix dice a coloro che la gareggiano: attenti, io non sono la Sanremo che vi consegna al traguardo riconoscibili dalle vostre mamme e fidanzate, non somiglio al Giro delle Fiandre che promette sfracelli e poi vi piazza sotto le gomme un pavé da cartolina illustrata. Io vi spezzo le ossa, vi cambio i connotati, non ho da offrirvi che sudore e lacrime, prendere o lasciare. Chi prende una volta, non la smette più: Parigi-Roubaix, sei brutta e cattiva, sei l'Inferno del Nord, e va bene, ma mi sono innamnorato di te, posso partecipare? La Parigi-Roubaix non si nega a nessuno. Non si sarebbe negata nemmeno a Moreno Argentin, se il nostro grande emigrato dalla fortuna non si fosse accorto di possedere un ginocchio guasto, conseguenza d'un colpo fiammingo. Non si nega a nessuno, però, un momento: se non possiedi le giuste resistenze, ti accoglie e, a metà strada, ti scardina, ti schioda. «Più o meno è così», concorda Ballerini: «Eppure qualcosa di morbido ce l'ha anche lei. E' vero o non è vero che la vinse un certo Peter Post, passista veloce, alla media di oltre 45 all'ora?». E' vero, e la Roubaix a quel ricordo arrossisce. Ma è altrettanto vero che l'immagine dell'olandese volante si confonde con quelle di effettivi campioni del gioco al massacro, di egregi seduttori di strade sconnesse, di formidabili incantatori di sampietrini scheggiati. La Roubaix esige un corridore di stazza. Il peso piuma Argentin si sarebbe comunque gettato nella sfida se al Giro delle Fiandre un'auto addetta al cambio delle ruote, investendolo e ammaccandolo, non gli avesse cambiato il destino. Peccato, il peso che conta non è quello della ciccia, è quello della classe. L'ultimo italiano a prendersi la Roubaix fu Moser, il quale addirittura ne abusò: 1978, '79, '80, che date per il ciclismo italiano. Quando, alla prima impresa, Franceso apparve nel velodromo leggendario, solo, incrostato di fango e di polvere di carbone, suscitò in noi più emozioni di quante ne possa mai suscitare una pur esimia pedata ad un pallone. Non divaghiamo e ripeschiamo Ballerini. «Già, parlavamo di Post. Lo so, è solo un caso. Per uscire salvi dalla Roubaix ci vuole soprattutto un fondoschiena di ferro e non alludo alla fortuna. Retrocedo con la mente all'anno passato. Che momenti. Sto per uncinare Madiot che scappa, e Talen e Peeters mi sbarrano la strada. Tutta la sofferenza del pavé sprecata, tutto buttato via, perduto. Pedalare sul pavé è come trovarsi su un rullo sgangherato ed essere scrupolosamente presi a calci nel didietro. Mi spiego?». Ballerini è, con Van Hoydonck e Museeuw, con Madiot, Kelly e Soerensen, un favorito di prima fila. In galleria stanno Cipollini e Bontempi, Ludwig, De Wolf e Vanderaerden. Nell'edizione 1991, Ballerini fu strappato al duello finale da un attimo, appena un attimo, di esitazione. Alla Parigi-Roubaix non si esita, non è permesso. Il minimo dubbio, la minima incertezza e, addio, la speranza ti si sbrìciola sotto le ruote. La Parigi-Roubaix riversa addosso ai corriddori una Galleria Lafayette di avversità, e ne gioisce. Venti squadre, 156 gareggianti. I chilometri sono 267. Il totale del pavé, suddiviso in trentadue settori, è di 57 chilometri e 650 metri. Nella geografia della classica francese, che compie oggi i novant'anni, il massimo dello sconforto lo offre la foresta di Arenberg col suo viottolo spacca reni. A Cipollini si rizzano i boccoli biondi. Il bruttò è che non ci sarà un arrivo allo sprint. «Obietto. E perché non dovrebbe esserci, chi l'ha stabilito?». Cipollini è simpatico. Obiezione accolta. Gianni Ranieri
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