Abissinia, la conquista soft

Abissinia, la conquista soft Ironia e entusiasmo nella testimonianza dello scrittore Waugh Abissinia, la conquista soft Un inglese dalla parte degli italiani mlVORZIATO, convertito al cattolicesimo, reduce dal successo di A Handfid of Dust, Evelyn Waugh aveva appena terminato una biografìa del martire gesuita Edmund Campion, e intanto prendeva in considerazione l'idea di risposarsi, stavolta secondo i riti di Santa RomanaChiesa, con Laura Herbert, dalla quale avrebbe a suo tempo avuto sette figli. Nelle more di questa decisióne fondamentale, quell'anima attraversata pensò di combattere la congenita irrequietezza facendosi spedire come corrispondente di guerra dal Daily Mail nell'Abissinia minacciata dall'invasione italiana; era l'agosto del 1935 e il mondo non parlava d'altro. Nel coro di esecrazione universale per l'intervento italiano a sfida della Società delle Nazioni la voce dell'Inghilterra spiccava per indignazione particolare, ma l'atteggiamento del Daily Mail, che era di blanda simpatia per il regime mussoliniano, andava controcorrente. Waugh amava trovarsi controcorrente; ma di qui a definire le sue corrispondenze filofasciste, ci corre. Più che i dispacci inviati allora, alcuni dei quali possono leggersi nella raccolta di scritti vari curata da D. Gallagher (1983), ci interessa comunque il volume organico scritto nel 1936, subito dopo la fine del conflitto, e oggi felicissimamente recuperato da Sellerio, in una buona traduzione di Tommaso Giartosio e con una introduzione di Benedetta Bini: Waugh in Abissinia. Più che un libro sulla guerra d'Abissinia, è un libro sull'impossibilità di fare il giornalista in una situazione simile. Raggiunta faticosamente Addis Abeba, il narratore e i suoi compagni occasionali conducono un'esistenza assai scomoda cercando di procurarsi notizie che non arrivano e che comunque non sono quasi in grado di trasmettere; i più intraprendenti inventano a man salva atroci fatti di sangue, facendo precedere i dispacci dalla formula magica «Una fonte dice che». Una gita nella città costiera di Harar non serve a chiarire la situazione; più avanti, il narratore e un paio di colleghi intraprendenti tentano avventurosamente di raggiungere Dessié, che sembrerebbe più vicina al fronte, ma sono fermati in un villaggio e rispediti nella capitale. In capo a qualche mese le compagnie cinematografiche e i giornali cominciano a richiamare i loro inviati, e Waugh non è scontento di rimpatriare per il Capodanno. Ad aprile la vittoria italiana è un fatto compiuto, ma nuovi gravi episodi internazionali come la guerra di Spagna e l'occupazione tedesca della frontiera sul Reno distolgono l'attenzione del mondo; le sanzioni vengono abolite, e l'Abissinia non fa più notizia. Curioso di vedere di persona com'è andata a finire, Waugh vi torna a sue spese, e approva la nuova atmosfera di ordine e di operosità. Trova efficiente e cordiale il generale Graziani, che gli dedica venti minuti dei suo tempo, e conclude il libro con un brano che gli sarà molto rimproverato, in cui loda la bella strada maestra che gli italiani stanno già costruendo, spiegando ai connazionali che in una zona impervia e desolata come quella la grande arteria è l'annuncio di una nuova era di pace e fertilità. Dell'origine del suo entusiasmo (ma entusiasmo è ovviamente un termine esagerato per uno spirito caustico come quello di Waugh) diremo fra poco; le sue osservazioni sono comunque acute. I laboriosi operai italiani descritti da Waugh - coloro che in pochi mesi hanno realizzato un'opera destinata a sfidare i secoli - sono «gente massiccia, di mezza età, apparentemente infaticabile». Gli abissini non li comprendono, per loro la vittoria comporta ozio e abbondanza; «l'idea di conquistare un Paese per andarci a lavorare; di considerare un impero come un luogo in cui portare cose e non da cui portarne via, un territorio che deve essere fertilizzato, coltivato, abbellito, e non denudato e spopolato; di faticare come schiavi, invece di starsene in ozio come padroni - tutto questo era completamente estraneo al loro modo di pensare... In Africa un'occupazione così concepita è sicuramente qualcosa di sconosciuto». La povera Grande Proletaria tentava di inventare il colonialismo soft; come andasse a finire, lo sappiamo tutti. Questo è il famigerato capitolo settimo, che in seguito Waugh avrebbe omesso dalla raccolta dei suoi scritti di viaggio. Nei sei precedenti egli ha incontrato ben poco da elogiare; in compenso, ha vividamente descritto la tragica farsa di un Paese miserabile, lacerato prima che dalla guerra con un nemico esterno, dall'oppressione dell'enigmatico Hailé Selassié I, signorotto feudale emerso dal conflitto fra vari Ras abissini, tiranni delle minoranze del Paese, particolarmente di quella musulmana. Pigri, crudeli e selvaggi, gli abissini sono responsabili della depressione che si vede dappertutto; in compenso sanno vendere all'e¬ stero un'immagine di dignitosa civiltà tribale offesa dalle ingerenze straniere. Diffondono, anche, abilmente, notizie di stragi perpetrate dagli italiani e inventate di sana pianta; a un certo punto per esempio il mondo piange sul bombardamento di un ospedale che non era mai stato neanche costruito. Non possedendo gli strumenti per giudicare l'attendibilità della posizione di Waugh, non pronunciò giudizi in materia. Mi sento comunque su terreno più saldo quando confermo la mia vecchia convinzione, che Evelyn Waugh sia uno dei sommi scrittori inglesi del secolo. Anche in traduzione non c'è nemmeno una pagina di questo libretto che non sia ammirevole per limpidezza, concisione, precisione, efficacia, oltre che per un umorismo inimitabilmente «deadpan», ossia impassibile fino alla crudeltà. Waugh è un Wodehouse per adulti (e così anche Wodehouse, si vorrebbe aggiungere, parafrasando Oscar Wilde). Il freddo, incuriosito disprezzo di questo arciconservatore per la confusione, il pressappochismo, la mascalzonaggine e via dicendo dei tempi in genere trova com'è ovvio un campo di osservazione ideale nell'atmosfera sordida e dissoluta di un territorio primitivo allo sfascio e di una fìnta metropoli come Addis Abeba; ne seguono frequenti momenti di commedia irresistibile, i cui personaggi sono albergatori cinici, informatori infidi, giornalisti superficiali e presuntuosi, burocrati locali corrotti e via dicendo. A fare la fortuna di qualunque antologia di testimonianze sull'Africa dovrebbe bastare anche solo un pezzo come la rivista della Guardia Imperiale sotto una pioggia spietata; ve ne regalo un brano: «L'Imperatore era giunto all'una e mezzo, in uniforme da campagna, accompagnato da una scorta di lancieri completamente fradici. Prese posto sul trono e sedette immobile, fissando la pioggia. Era ormai evidente che la tettoia sopra le nostre teste era stata progettata più come ornamento che come protezione; l'acqua penetrava in abbondanza attraverso molti fori che andavano allargandosi; qualche giornalista che si era portato dietro la macchina per scrivere provava a battere il suo articolo, ma la carta gli si spappolava sotto i tasti. E ancora non succedeva nulla. Era necessario che l'Abuna aprisse la cerimonia compiendo tre giri a piedi attorno al Mascal, ma nulla avrebbe potuto indurre quell'uomo vecchio e infermo, nato in un clima più benigno, ad abbandonare il posticino asciutto che i suoi diaconi gli avevano trovato sotto la tettoia...». Ma ora continuate voi a leggere, ne vale la pena. Masolino d'Amico «Gente massiccia, infaticabile: non stanno in ozio come padroni, ma lavorano còme schiavi» Lo scrittore Evelyn Waugh. In alto soldati italiani con un abissino Sopra, soldati salutano da una nave in partenza per ('Abissinia. A fianco, il generale Graziarli, a destra il Negus Hailé Selassié in un'immagine giovanile