Hesse lo scomunicato in viaggio verso la felicità

Hesse lo scomunicato in viaggio verso la felicità In due album la sua vita per immagini Hesse lo scomunicato in viaggio verso la felicità APPASSIONATO di buddismo e di zen, lo scrittore svevo Hermann Hesse era avvezzo a guardare dentro di sé, ad auscultare la propria anima. Ci sarebbe da credere che non tenesse in gran conto le immagini esteriori. Compresa la fotografia e i ritratti formato tessera: imperdonabili leggerezze per chi sonda le profondità dell'essere. A conferma di ciò può servire un passo del Demian, il romanzo pubblicato nel 1919 che inaugura la sUa stagione psicoanalitica: «Talvolta, quando trovo la chiave - vi si legge - scendo dentro di me, dove le visioni del destino dormono nello specchio buio; basta che mi chini sopra questo specchio per vedere la mia propria immagine...». Un modo criptico ed elegante per viaggiare in regioni poco.frequentate,,con un pizzico di magica aura: tra la favola e la sfera di cristallo degli indovini. Ma soprattutto un modo spiccio per impressionare una lastra (sempre che si disponga del codice, diremmo oggi, della propria anima): sarebbe piaciuto anche a monsieur Daguerre e a tutti i pionieri dell'arte fotografica. Per non parlare degli instancabili borghesi dell'800 in vena di ritratto, appoggiati a tavoli o a semicolonne per un tempo interminabile pur di vedersi eternati. Quanta fatica in meno, avrebbe forse sospirato il corpulento Balzac, che detestava essere fotografato. Hesse invece, contrariamente ad ogni ipotesi, non se lo fa dire due volte. Complice forse lo sviluppo tecnologico che assicura, con tempi più rapidi della psicoanalisi, una buona istantanea. O anche l'inquietudine e l'imbarazzo che colgono lo scrittore nello scorgere dentro di sé immagini sempre più scisse e deformate: basta pensare a romanzi come Siddharta o al Lupo della steppa con la sua polarità di istinto e ragione. L'obiettivo fotografico è meno problematico e non di rado più rassicurante. Così anche Hesse si lascia immortalare, magari da Gisèle Freund (di cui abbiamo ammirato nei mesi scorsi splendide immagini al Beaubourg) o dal tocco colloquiale e affettuoso del figlio Martin. Queste e altre fotografie si possono vedere in una mostra a Milano (Palazzo Visconti) aperta in occasione del convegno sullo scrittore. Sono in gran parte immagini tratte dall'Album Hesse uscito l'autunno scorso nella collana dei Meridiani, cui va ad aggiungersi un bel volume della Collezione Iconografia dell'editore Studio Tesi (H. Hesse, a cura di Giorgio Cusatelli, autore di un originale saggio critico, e Heiner Hesse). C'è da credere che molti appassionati lettori, colpiti dall'irriverenza dei critici, siano sfilati in religioso silenzio di fronte a tali foto. Anche stavolta l'obiettivo 6 più rassicurante: costruisce il monumento ad Hesse con i frammenti di una vita che trasuda inquietudini, considerate dagli addetti ai lavori con scetticismo e non poca ironia. Autorevoli voci hanno definito Hesse un autore kitsch, buono al più per la pubertà (ma, aggiungerei, con tanto di rimozione sessuale), un conservatore, un ingenuo paladino dello spirito. C'è mollo di vero in tutto ciò. La sua scrittura è talora di una semplicità disarmante, incapace di delineare le complesse strutture del mondo moderno. E tuttavia Hesse resta, a mio avviso, un diagnosico degno di attenzione, oltre che uno spirito libero, pacifista e antiau- toritario in un'epoca di violenze collettive, anche se dà voce al disagio della civiltà per poi diluirlo non di rado in situazioni banali o proiettarlo fuori del tempo. E' ciò che suggeriscono anche segretamente le sue fotografie: una quotidianità senza supponenza e come trasognata. Ecco il romanziere in privato, in pubblico, in posa, all'insaputa, bimbo e premio Nobel, innamorato e ascetico. Lo si direbbe un contabile, un archivista, un professorino nuovo di zecca, se non fosse per quegli occhi strani e ipnotici, che pungono e scrutano lontano: probabilmente in quell'Oriente di cartapesta di cui si è parlato a Milano. O non piuttosto oltre la superficie delle cose, come il suo «mago» Klingsor (neh'Ultima estate di Klingsor del 1920), seducente disegnatore di sogni colto da un'ebrezza panica. Ma c'è anche l'Hesse da cerimonia e quello in tenuta da sci, magro e schizzante come dopo una discesa mozzafiato. Accanto a lui il baffuto Thomas Mann ha l'aria di un manichino fuori sede: sui campi da neve in un severo doppiopetto da conferenza. Hesse, al contrario, non è mai al posto sbagliato: ogni immagine sembra studiata come glossa alla propria opera. L'utopia di una natura incontaminata, che si nutre del miglior romanticismo tedesco, l'adattare il proprio corpo ai movimenti della fisicità naturale, la simbiosi fra individuo e macrocosmo, prendono lentamente forma non solo in romanzi come Peter Kamenzind o Klingsor ma anche tra questi fotogrammi ingialliti. Ecco lo scrittore nudo e felice sulle rive del lago di Costanza, mentre il figlioletto Bruno lo guarda come un putto barocco. E poi, ormai vecchio, sulle alture vicino al lago di Lugano, dove da tempo s'era ritirato: un profilo che si confonde con le linee dei monti. E' il ritratto dell'ecologista Hesse, quello che oggi, con tanto candore, riesce ancora a parlare a molta gente: il volto asciutto da contadino, grandi cappelli a tesa larga. Fugge dal mondo della macchina per predicare una diversa qualità di vita? Ebbene, sì, tanto da rischiare oggigiorno un seggio fra i Verdi al Parlamento tede¬ sco, se fosse ancora fra i comuni mortali; e, chissà, tuonare da lassù contro i suoi critici disposti magari a votarlo, ma non più a leggerlo. Era uno spirito vagante, un esule. La sua fortuna fu di riuscire sempre a congedarsi al momento opportuno: dal seminario di Maulbronn, dal ginnasio di Cannstatt, dalla casa di cura per malati mentali di Stetten. Ad ogni passo gli si apriva davanti una voragine: erano le trappole della società borghese pronte ad imbrigliarlo in una professione, nella cultura urbana, in una qualsiasi forma di maturazione tradizionale. Si salvò restando adolescente e rischiando la scomunica dei germanisti convenuti a Palazzo Visconti. «Ho trascorso metà della mia vita - confessò - in una inutile nostalgia della mia gioventù». Altro che inutile! Gli servì per ammassare fans, intascare un premio Nobel e girare per il mondo alla ricerca delle proprie origini spirituali. Vorremmo tutti (detrattori compresi) poterlo seguire ai recapiti che s'è lasciato dietro: splendide case di campagna, ville che riposano, solide e silenti, in queste fotografie. La sua fortuna e grandezza fu di poterle abbandonare a piacere. Per imbarcarsi per l'India in un completino bianco da défilé coloniale. O per vagabondare per le contrade italiane con un fagotto sulle spalle e tanti sogni in testa. C'è una foto che lo ritrae da dietro con l'amico musicista Othmar Schoeck: davanti a loro una strada di campagna che si perde in chapliniana dissolvenza. Hesse ha in qualche modo insegnato a percorrerla senza mai fermarsi. Neanche nelle sue splendide case. Meno che mai affidandoci alle cure delle agenzie di viaggio. E senza nostalgie per le foto di un tempo. Le uniche immagini che contano chissà che non abbia ragione Demian per una volta - non sono quelle dei rotocalchi o delle tivù, e nemmeno quelle degli album di famiglia: stanno piuttosto da qualche parte dentro di noi, in un'inquietudine che a dar retta a Hesse si potrebbe anche scambiare per felicità. Luigi Forte Per molti critici è kitsch adolescenziale e ingenuo: ma vai la pena di ascoltare le sue diagnosi sulla civiltà Hermann Hesse nel castello di Bremgarten con l'amico Max Wassmer. A destra Ruth Wenger, che sposò nel '24 Hesse in una delle ultime immagini, con la nipote Sybille

Luoghi citati: India, Milano