Gli sciamani dell'ex impero di Claudio Gorlier

Gli sciamani dell'ex impero Il Commonwealth letterario Gli sciamani dell'ex impero EZZO bastone e mezzo carota», è la franca definizione del Commonwealth data da John Major nell'ottobre del '91, alla conferenza di Harare, in Zimbabwe. La turbolenta accoglienza della regina in Australia, poco più tardi, ha confermato che questo vecchio bastione imperiale sta sgretolandosi: un evento meno drammatico e meno vistoso della dissoluzione dell'Unione Sovietica, ma altrettanto significativo. Se il Commonwealth ha forse imboccato il viale del tramonto, le culture dei Paesi post-coloniali hanno mostrato negli ultimi decenni un considerevole vigore, e il termine resiste a proposito delle letterature in lingua inglese del Canada, dei Caraibi, dell'India, dell'Africa, dell'Australia, della Nuova Zelanda e Sud Pacifico, di Malta. I due scrittori di lingua inglese ritenuti ormai di maggior statura, V. S. Naipaul e Salman Rushdie, noti entrambi al pubblico italiano (tra l'altro, buona parte dell'opera di Naipaul è accessibile negli Oscar Mondadori) provengono dalla periferia dell'Impero. Proprio Rushdie, a sanzionare una memorabile rivincita, ha coniato una frase epigrammatica che si fonda su un gioco di parole, The Empire writes back?, ossia l'impero, i suoi ex sudditi, rispondono scrivendo per le rime (da to fight back, contrattaccare). Non tutti gli interessati amano l'etichetta di Commonwealth, preferendo «nuove letterature in inglese» o più semplicemente «letterature in inglese», ma il termine originario tiene bravamente, e lo ha adottato Sergio Perosa nel titolo della sua preziosa e vivace raccolta di saggi, Bagliori dal Commonwealth (pubblicata da Bulzoni). L'autore insegna alla veneziana Ca' Foscari, dove gli studi di queste letterature sono iniziati in Italia grazie al suo impulso. Le letterature del Commonwealth pongono due problemi preliminari, che Perosa mette a fuoco. Uno è «l'aspetto comune che si ritrova nelle esperienze di tutti questi Paesi: la letteratura come ricerca e affermazione di identità, strumento per la definizione dell'io individuale e dell'io nazionale»; l'altro è «il passaggio dall'oralità alla scrittura», tanto più sottile e complesso in quanto si passa «da una lingua etnica a una europea, imposta dal colonialismo e sentita perciò come estranea, alienante, straniera». Corre qui un confine invisibile ma non trascurabile tra le letterature dei Paesi coloniali e quelle di altri - Canada, Australia, Nuova Zelanda - dove l'inglese è, in sostanza, lingua madre: un problema tutt'altro che estraneo per noi, solo che si pensi alla significativa confessione di Pavese a Emilio Cecchi sul fatto che in Piemonte si studia l'italiano come lingua straniera, o all'interscambio tra italiano e dialetto nella poesia di Andrea Zanzotto. Così, l'inglese è stato ripensato e riplasmato da scrittori africani (Amos Tutuola, Chinua Achebe, Gabriel Okara, per citarne alcuni tradotti in italiano), indiani (Rushdie, Narayan, Raja Rao), caraibici (Naipaul) e quindi riposseduto. D'altronde, gli autori di ascendenza anglofona si sonoV. S. Naipaul dovuti porre il problema di un paesaggio, di una natura, di un senso del tempo profondamente diversi, tali da incidere in modo decisivo sulla loro visione del mondo e, in definitiva, sulla loro scrittura: basti pensare alla implacabilità degli elementi nella narrativa dell'australiano Patrick White, o, più addietro, alla rappresentazione della solitudine alienante e della violenza domestica in Katherine Mansfield, solitamente annoverata tra gli scrittori inglesi ma inequivocabilmente neozelandese. Prende allora corpo il variegato fenomeno dell'interfaccia, vale a dire dello scambio tra culture diverse, del rapporto non di rado antagonistico con i modelli, in una dialettica che scompagina il principio della cultura e della società inglese quale centralità, una rimessa in gioco già ben presente nell'anglo-indiano Kipling e oggi nell'opera singolare di Bruce Chatwin. Il sociologo americano Frederic Jameson ha rilevato molto a proposito che nelle letterature post-coloniali si ricupera il rapporto pubblico-privato divenuto assai tenue e frammentario nelle culture occidentali. Lo scrittore diviene più che mai sciamano, «maestro», sostiene Achebe, colui il quale si assume delle responsabilità e «marcia in testa». Non meraviglia dunque che la teorizzazione gramsciana dell'intellettuale organico trovi numerosi riscontri nei Paesi post-coloniali del Commonwealth. La verità è che l'intellettuale si trova a combattere su molti fronti, in ottiche diverse ma talora concorrenti, nelle diverse latitudini. All'effetto straniante del colonialismo si è saldata una frequente degenerazione politica con l'affermarsi di regimi dittatoriali a partito unico, o gli scontri sociali ed etnici hanno prodotto, in Paesi democratici come l'India, una pericolosa instabilità. L'ultimo, intenso romanzo di Achebe, Viandanti della storia, ne offre una sconvolgente testimonianza; e Chiuditi Sesamo del grande scrittore somalo in esilio Nuruddin Farah (entrambi usciti presso le Edizioni Lavoro) presenta, in una misura tra il fiabesco delle Mille e una notte e il realismo diretto del thriller, uno spaccato impietoso della disperata condizione umana sotto la dittatura di Barre. In Sud Africa, autori neri e di ascendenza europea si sono trovati ad affrontare, da un lato l'incubo dell'apartheid, dall'altro, come ha acutamente sottolineato J. M Coetzee, lo scrittore di lingua inglese ma di estrazione boera, autore dell'esemplare ro manzo Aspettando i barbari, la necessità di descrivere il rap porto «con la roccia e con il sole», con il paesaggio. Nel Commonwealth che si sfalda, la letteratura ricompone un immenso villaggio globale, definizione, quest'ultima, che si deve proprio a un canadese, Marshall Mac Luhan, così come un altro canadese, Northrop Frye, ha ridisegnato la mappa della teoria letteraria. Non regge più la vecchia formula, tra il serio e l'ironico, che due sono i fattori trainanti del Commonwealth, la lingua inglese e il cricket. Claudio Gorlier o o V. S. Naipaul