L'America s'indigna per Ashe «Verità rubata dai giornali» di Paolo Passarini

L'America s'indigna per Ashe «Verità rubata dai giornali» Bush telefona al tennista affetto da Aids: chiedimi ciò che vuoi L'America s'indigna per Ashe «Verità rubata dai giornali» IN DIRETTA LE LACRIME DEL CAMPIONE WASHINGTON DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Qualcuno si è indignato, quando lo ha visto ammutolire in tv, il volto contratto coperto di lacrime. Qualcuno, come Billie Jean King, la campionessa di tennis la cui omosessualità alimentò molte storie scandalistiche, inveisce contro quell'«indebita intrusione nella vita privata di una persona». Molti polemizzano con la stampa. Arthur Ashe no. Ha solo detto che non si sentiva «pronto» a rivelare quel segreto difeso dai suoi amici con «una generosa congiura del silenzio». Temeva soprattutto per la piccola Camera, la figlia di 5 anni. Voleva proteggerla dalle cattiverie e dai pregiudizi, che spesso colpiscono i famigliari dei malati di Aids. Ha rimpianto di essere stato costretto a scegliere «tra rinunciare alla sua "privacy" e mentire». Ma Ashe non è l'uomo delle bugie e nemmeno del rancore. «Ormai è fatta, dovrò vivere questa nuova condizione. Capisco i giornali, ci ho lavorato», ha detto dopo aver rivelato di aver contratte l'Aids nell'83 a causa di una trasfusione di sangue. Per lui è peggio che per «Magic» Johnson, che è solo sieropositivo. Ashe ha già l'Aids e la sua ultima lotta sarà più disperata di tutte le altre che ha combattuto, compresa quella contro il razzismo. Una telefonata a tarda sera gli ha fatto crollare il mondo addosso. Era Doug Smith, il giornalista di «Usa-Today» che segue il tennis: ((Arthur, senti, il mio capo ha saputo una cosa e vuole che io verifichi. E' vero che hai l'Aids?». Qualcuno aveva rotto la «congiura generosa». Arthur, che odia mentire, ha risposto: «Could be». Può essere. Gene Policinski, capo dei servizi sportivi del quotidiano, ha richiamato: «Guarda che è legittimo il nostro interesse, sei un personaggio pubblico. Non a caso abbiamo pubblicato servizi sui tuoi interventi al cuore». «Capisco, ma non prendete il mio "potrebbe essere" come una conferma». «Usa-Today» ha una regola: non si pubblicano notizie di fonti anonime senza la conferma dell'interessato. E così, a tarda sera, Policinski ha deciso di bloccare la storia. Ma Ashe ha sentito che non poteva vivere nel terrore di chi nasconde un segreto che chiunque può ormai rivelare all'improvviso e nei modi peggiori. E ha convocato una conferenza-stampa. Le polemiche continueranno. Ma in questa storia c'è abbastanza per capire che cos'è la stampa americana: implacabile, ma con regole precise. E c'è anche tutto Ashe, con la sua dignità, il suo coraggio e la sua misura. Ashe ha sempre combattuto dure lotte, ma senza mai affidarsi a rancorose proteste o a gesti clamorosi. Tenacia, fatica e fermezza. La sua idea, diventata l'asse portante dell'acclamata storia dei neri nello sport, i tre volumi della «Dura strada per la gloria» che ha scritto dopo sei anni di ricerche, è che gli atleti di colore devono sfruttare i successi sportivi per far avanzare i diritti civili. Lui, figlio di una povera guardia forestale della Virginia, a 17 anni era già campione nazionale giovanile di tennis, ma non poteva giocare nei campi degli Stati segregazionisti del Sud. Erano i primi Anni 60. Ashe tirò avanti. A 20 anni vinse i primi U.S. Open. A 25 anni era il numero 1 al mondo. A 30, primo nero a vincere il singolo maschile, stracciò Jimmy Connors nella finale di Wimbledon. Si batteva già da 5 anni contro l'ammissione del Sud Africa razzista in coppa Davis. Per le sue posizioni politiche fu costretto a lasciare l'esercito, ma intanto si era laureato. Nell"85 Ashe venne arrestato per una manifestazione davanti all'ambasciata del Sud Africa ed era già un grosso personaggio, commentatore per il «Washington Post», per 5 anni commissario tecnico della squadra americana di coppa Davis. Ma non dette certo in escandescenze. Anni prima i neri estremisti avevano polemizzato contro la sua decisione di andare a giocare in Sud Africa anche prima della fine dell'«apartheid». Ashe voleva vedere e capire. Ma, quando, recentemente, una commissione di neri americani è stata chiamata in Sud Africa per andare a studiare le vie migliori per superare il segregazionismo, Nelson Mandela in persona ha preteso che Arthur ne facesse parte. George Bush lo ha subito chiamato e gli ha detto: «Barbara e io siamo addoloratissimi. Ma voglio che tu sappia che appena hai bisogno di qualcosa, non devi fare altro che alzare il telefono e chiamarmi». «Penso che lo farò presto, Presidente», ha risposto Ashe, che ha già annunciato l'intenzione di lavorare assieme a «Magic» Johnson per spiegare ai giovani i pericoli dell'Aids. La cura dell'Azt lo sta fiaccando. «Sono come tutti i malati di Aids», ha detto. «Ho giorni buoni e giorni cattivi e, almeno per adesso, la proporzione è 6 a 1». Sembra il punteggio di un «set» dominato dall'inizio alla fine. Come uno dei tre con cui fece piangere Connors a Wimbledon. Paolo Passarini Arthur Ashe con la moglie nella conferenza stampa. Il campione ad un certo punto ha pianto

Luoghi citati: America, Sud Africa, Usa, Virginia