Don Cherry, tante Idee ma confuse di Gabriele Ferraris

Don Cherry, tante idee ma confuse Torino: il trombettista, campione dell'avanguardia di 30 anni fa, al Nuovo Don Cherry, tante idee ma confuse La sua musica polifolklorica è ormai datata TORINO. Tante idee, ma ben confuse. Don Cherry, nella smania di dir tutto finisce col non dire nulla. Multi Kulti, il progetto etno-jazz (più etno che jazz) perseguito con tenacia dal trombettista americano - campione dell'avanguardia free di trent'anni fa - oggi appare déjà vu a un pubblico che ha scoperto le suggestioni della world music e ascolta i veri artisti etnici, senza lasciarsi incantare dai polpettoni polifolklorici. Mastro Ciliegia (il gioco di parole è suo, «non sono arancia, non sono banana, sono Cherry, ciliegia») s'è messo in testa di creare una musica totale - sai che novità! - spaziando dal jazz ai ritmi antillani, dalla rumba zairese all'highlife nigeriana, al makossa appreso alla scuola di Manu Dibango. Per farlo, ha creato Multi Kulti: un ensemble che ha la massima espressione nella super-band Hieroglyphics, una ciurma di una ventina di persone: più modestamente, l'altra sera al Teatro Nuovo Multi Kulti era rappresentato da cinque musicisti di altalenante valore. Il concerto è suggestivo: Cherry siede a terra, le gambe incrociate, e crea suoni misteriosi con strumenti ancor più misteriosi. Il bassista Bo Derek scuote la criniera a treccioline non bionde, non equivochiamo - e si lascia andare a trucchi un po' circensi. Non demeritano gli altri. Cherry inizia con un canto modulato, e mostra subito le carte: sarà una serata di etnomusic, il jazz è una spezia, null'altro. E cerca l'applauso e la complicità del pubblico, un po' per vezzo, un po' per convinzione: «Mi piacerebbe veder ballare, ai concerti - spiegherà poi. - Una volta il jazz si suonava nelle dancehall, anche il bebop. Ricordo che c'era un ballo che si chiamava proprio bop. Invece, adesso si suona negli auditorium, e la gente intellettualizza, sta lì seduta e ascolta. Non mi piace». L'estroverso Cherry non riesce a far ballare il pubblico del Teatro Nuovo. Però ci prova. Vuole una musica gioiosa, questo è evidente. «Il jazz e la musica latina sono venuti in America dall'Africa, e adesso ci ritornano», dice. Ma il bastimento è affollato, rischia il naufragio. L'omaggio al genio di Thelonious Monk è scolastico, e sono rare e casuali le impennate free della celebre «tromba tascabile», sempre più trascurata a favore di strumenti esotici: dalla kalimba ai flauti di canna, fino al liuto del Mali, una sorta di kora a sei corde, che Cherry adora. «Un bluesman una volta mi ha chiesto "ma dove hai preso questa chitarra?", e io gli ho risposto "non sono io che l'ho presa, è lei che ha preso me"», racconta, e pare un innamorato. Innamorato tradito dalla passione, che spesso induce ad azioni stolte: nei brani ascoltati al Nuovo si affastellano echi di tutte le culture musicali nere. E' un catalogo, un'antologia di buone intenzioni. C'è l'assaggio shona in «Dedication to Thomas Mapfuno», ma il Leone dello Zimbabwe è un'altra cosa; c'è lo Zaire di «Rhumba Multi Kulti», però la rumba di Franco entusiasmava di più; c'è il reggae diligentemente eseguito, eppure si continua a preferire Bob Marley. E c'è il blues, magari annacquato come in «Until The Rain Comes», tema sul quale è piovuto davvero a catinelle, fino al livello di guardia della canzonetta. L'unico assente, alla fin fine, è proprio lui, Don Cherry, troppo impegnato a mascherarsi da cantore griot per ricordarsi di essere stato un jazzista; e troppo jazzista per arrivare all'afrobeat di Fela Kuti. Spettacolo non sgradevole, applaudito da quattrocento spettatori: ma «sparpagliato», non filologico e senza filo logico. Il gioco di parole è nostro, Cherry è convinto che un senso ci sia: «Cerco l'incontro di tutte le culture». Sarà. Gabriele Ferraris Il trombettista Don Cherry

Luoghi citati: Africa, America, Mali, Torino, Zaire