Il ritorno degli «ingrati»

Il ritorno degli «ingrati» Dopo la grande fuga del '43, aiutati dagli italiani, gli ex prigionieri inglesi ridiscutono il loro rapporto con noi Il ritorno degli «ingrati» «Italia, era difficile ringraziarti» I LONDRA NGRATI? A mezzo secolo dalla più grande «fuga in massa» della stona, la domanda rimbalza fra Italia e Inghilterra. Dopo l'8 settembre '43 ottantamila prigionieri di guerra alleati riuscirono a fuggire e a raggiungere alcuni la Svizzera, altri la linea del fronte, altri ancora le formazioni partigiane. Molti, la maggioranza, restarono nascosti fino al '45: e tutto ciò fu possibile grazie all'appoggio incondizionato e generoso - a rischio della vita - che dette loro la gente comune. Dopo la guerra uscirono in Gran Bretagna molti libri di memorie, poi tutta la vicenda sembrò passare alle carte polverose degli archivi e a quelle degli storici. Fu, quella, un'epopea ben diversa dalla tragedia dei nostri prigionieri in Russia, che dopo i documenti segreti del Kgb rivelati dalla Stampa ha occupato saldamente le cronache politiche italiane. Ma a quasi 50 anni dall'armistizio, il dossier-Italia viene riaperto con prese di posizione molto ferme da due studiosi inglesi, Roger Absalom e Denis Mack Smith. Il primo ha pubblicato da Olschki, a Firenze, A strangeAlliance, il secondo lo ha recensito sul Times Litterary Supplement e sulla Stampa. Il lungo articolo di Mack Smith termina con un affondo polemico: «Molti (ex prigionieri), con ogni probabilità la maggior parte, non rividero mai più, per ringraziarli, coloro che li avevano aiutati. E le autorità britanniche si rivelarono davvero ingenerose nel riconoscere, a guerra finita, l'assistenza che un grandissimo numero di italiani aveva prestato con forte rischio personale». Immediata la risposta, con una lettera al Tls, di un ex prigioniero che non solo non ha «dimenticato», ma ha fatto dell'Italia, e della valle dove restò nascosto a lungo fra il '43 e il '45, la sua seconda patria. «Mack Smith ha ragione - dice J. Keith Killby - quando sostiene che molti non ebbero più contatti con quanti li avevano aiutati. Ma nell'immediato dopoguerra non era facile comunicare né viaggiare verso l'Italia, anche nel caso che i nomi di quanti ci avevano aiutati ci fossero stati noti». Però, continua Killby, molti sono ritornati. E ci racconta la sua storia: «Ero in provincia di Macerata, internato in un campo di concentramento a Monte San Martino. E ora, di quel paese, sono cittadino onorario». Keith Killby in tanti anni ha cullato un'idea che solo in tempi recenti ha potuto essere realizzata: fondare un'associazione, il Monte San Martino Trust, che ha sede presso la BritishItalian Society a Londra ed è riuscita a offrire l'anno scorso dieci borse di studio ad altrettanti studenti italiani. «Quest'anno - aggiunge - contiamo di darne almeno quattro o cinque». «Io ho rivisto la mia valle nel '61 - dice con orgoglio - e da allora ci vado puntualmente ogni anno». Non è l'unico caso. In Inghilterra continua a essere venduto nell'edizione tascabile un libro - pubblicato nel '71 - che è stato a lungo un best seller ed ora è quel che in editoria si definisce un long-seller: Love and War on the Appenines, di Eric Newby, un altro ex prigioniero che a Fontanellato, in provincia di Parma, non solo trovò solidarietà e aiuti, nel '43, ma anche una moglie. Il libro venne tradotto, quindici anni fa, da Garzanti; ora è da tempo fuori catalogo: ed è un peccato, perché attraverso la storia dei tre mesi fra l'armistizio e la cattura da parte dei fascisti il prigioniero inglese ci racconta un viaggio di scoperta, quasi un itinerario iniziatico, nell'Italia contadina, un mondo e una cultura ormai scomparsi. Newby riesce a essere preciso, avventuroso e commosso: descrive con esattezza da antropologo le case sull'Appennino, poverissime, i grandi letti scaldati con un braciere protetto dall'intelaiatura di legno che veniva chiamata in quella zona il «frate» (ma che molti ricorderanno, magari nelle case delle nonne, con altri nomi: il «prete», la «monaca»), il vino forte e acido, il prosciutto stagionato in solaio, le giornate a togliere sassi dai campi, le domeniche in casa a chiacchierare con i vicini, sotto la pioggia o in un mare di nebbia. Lo abbiamo raggiunto nel Dorset: è uno scrittore affermato, che ama i viaggi, le esplorazioni e le scoperte. Quei giorni sull'Appennino li ricorda bene. «Vittorio De Sica voleva fare un film, ci incontrammo parecchie volte e quando sembrava quasi tutto deciso non si trovò il denaro - racconta divertito -. Ma il mio libro continua a vivere e questo significa che la memoria di quei giorni non si è spenta in Inghilterra. Probabilmente adesso la storia della mia fuga andrà davvero sullo schermo: la Bbc vuole fare una coproduzione. Vedremo». Anche Newby tornò presto negli Appennini, con la moglie Wanda, nel '46, e da allora è un personaggio noto e benvoluto nella zona di Parma. Ha avuto la gioia di vedere il «miracolo economico» e i suoi ospiti del '43 uscire dalla stretta della povertà, costruire nuove case, conquistare un benessere che ai suoi occhi parve incredibile e, appunto, «miracoloso». Ma le ultime parole del suo libro suonano come un atto d'accusa nei confronti dei suoi connazionali: «Alcuni rigraziarono; molti, che avrebbero avuto molti motivi per farlo, non lo fecero». A distanza di anni, ora ha rivisto il giudizio: «Va detto che molti non erano in grado di tornare in Italia - riflette -. C'era un problema obiettivo di mezzi. Io ho lavorato, durante la guerra, per i servizi di intelligence, ero in qualche modo più attrezzato. E poi avevo motivi personali per farlo». Assolti gli ex prigionieri, colpevole il governo. Newby e la moglie Wanda lavorarono dopo il '46 per un'organizzazione governativa che censiva e stabiliva rimborsi o premi in denaro per chi aveva aiutato i soldati in fuga. Il Tesoro britannico decise però di pagare al tasso di cambio pre-armistizio e cioè 72 lire per sterlina. Il che voleva dire, con l'inflazione rovinosa di quegli anni, pochi spiccioli. «Sarebbe stato meglio non dare nulla» commenta amaramente Newby nell'epilogo del suo libro. Pochi spiccioli, un attestato al ciclostile con la firma (ciclo¬ stilata anch'essa) del feldmaresciallo Alexander: per molti suonò come un beffa e parecchi rifiutarono. Absalom, nel suo studio, dedica molte pagine a questo tema: nella commissione alleata istituita per identificare tutti coloro che avevano aiutato i prigionieri di questa «armata in fuga» i rappresentanti inglesi proposero un alto numero di onorificenze, gli americani pochissime. Ma se il governo statunitense ne concesse infine qualcuna, quello britannico bocciò tutte le proposte. Offrì solo denaro, svalutato. Perché? «Perché voleva punire l'Italia» sostiene il professor Richard Ellwood, docente a Bologna, studioso del periodo '43'45 cui ha dedicato uno studio già nel '77, L'alleato nemico (Feltrinelli). Per Ellwood non è un problema di ingratitudine. «Gli inglesi hanno pagato poco, ma è anche vero che hanno fatto ricerche molto accurate: hanno istituito una commissione, sono tornati sui luoghi, hanno visitato decine di migliaia di case per individuare tutti coloro che avevano aiutato i prigionieri. La volontà contraria, una volontà politica, c'è stata quan¬ do si è trattato di decidere un riconoscimento formale: e allora, davanti alla proposta di conferire onorificenze, insomma di dare medaglie, le autorità britanniche hanno vergognosamente rifiutato. Volevano punire l'Italia. Volevano regolare i conti come fosse ancora l'8 settembre del '43. Quel che è accaduto dopo non interessava». La memoria dell'incontro, invece, si è conservata. Soldati e contadini non hanno dimenticato. «Tutte le persone con cui mi capita di parlare in Inghilterra hanno almeno un parente, un amico, insomma qualcuno che è stato prigioniero in Italia e che ha partecipato alla grande fuga» osserva Ellwood. E l'incontro ha dato i suoi frutti: quel dilagare di inglesi, portatori di una cultura diversa, nella nostra «campagna profonda» ha smosso le acque, mutato certi atteggiamenti mentali, aperto nuove prospettive nella rigida vita contadina. La «grande fuga» del '43 - sostengono Absalom e Ellwood - è una pagina di storia culturale italiana. In buona parte, ancora da leggere. Mario Baudino «Irriconoscenti» accusa Mack Smith. Ma molti vengono spesso nei luoghi dove trascorsero i mesi drammatici dopo l'armistizio. Qualcuno è anche cittadino onorario Sopra, il Feldmaresciallo Alexander che diresse la campagna d'Italia. Nell'immagine grande, soldati britannici in un campo di prigionia. A sinistra, lo storico inglese Denis Mack Smith