Tom Ponza centotrenta chili di segreti made in Italy

Tom Ponzi, centotrenta chili di segreti made in Italy Parla l'investigatore più famoso: per 20 anni ho insegnato alla polizia come si fanno le indagini Tom Ponzi, centotrenta chili di segreti made in Italy L'INCONTRO UNA VITA SULLE TRACCE DEL MISTERO MILANO DAL NOSTRO INVIATO Enorme nei suoi centotrenta chili, il capoccione pelato, le grandi orecchie, il collo taurino, lo sguardo mite: ecco com'è fatto Tom Ponzi, settant'anni, fascisterne nostalgico di una adolescenza armata e perdente, un personaggio poco inquadrabile nei tipi italiani, essendo un grande, forse il più grande detective privato, mestiere che appartiene ad altre letterature, altre tradizioni. Eppure questo signore vasto, non privo di disarmante candore, è un testimone della storia segreta d'Italia. E' ancora in piedi perché è bravo, è un mostro come detective, e ha il monopolio o quasi delle macchine infernali del suo mestiere ansiogeno. Ma lui non prova ansia: vecchio paracadutista, pugile, nuotatore, è uno che si butta dal trampolino di otto metri all'indietro per far divertire gli amici. A settant'anni. Quest'uomo eccessivo è un prodotto italiano malgrado le apparenze e anche se gli stereotipi letterari costringono per pigrizia a citare il solito Philip Marlowe di Raymond Chandler (perché Ponzi è anche uno scrutatore di bassifondi), e ovviamente a fare il nome del peso massimo degli investigatori della letteratura: il Nero Wolfe di Rex Stout (ricordate la versione sublime di Tino Buazzelli?). Ma sarebbe banale: passi per la stazza, passi per la passione culinaria perché Ponzi si è specializzato in bistecche all'origano e salvia («gli amici si leccano, mi scusi l'espressione, le dita»), gnocchi al sugo alla romagnola e minestrone. Ma Nero Wolfe era un sedentario cerebrale, misogino cultore di orchidee, mentre Tom Ponzi è un romagnolo sanguigno cui piacciono le belle donne, e in vita sua ha mollato certe sberle che erano peggio delle revolverate* • Semmai ha qualcosa dell'Orson Welles de «L'infernale Quinlan», per via di quella grassezza aggressiva, ma non è un uomo da serra. E' stato sui ring, in palestra, attaccato al paracadute, sub, tiratore scelto. La sua vita è costellata di episodi buoni e civici: ha salvato più affogati lui che i bagnini di Rimini, ha fermato assassini, bloccato rapinatori, scoperto quadri rubati, recuperato diamanti, documentato adulteri, pedinato padrini mafiosi. Un suo discepolo è diventato famoso in questi giorni per essersi specializzato nel fotografare e documentare le molestie sessuali. In una sua celebre inchiesta del 1961 scoprì che certi mascalzoni vendevano a duemila lire al chilo le vacche morte di malattie infettive. Un suo figlio fa la spola con il Kenya ed ha il master in economia. L'altro manda avanti parte degli affari con la sorella Myriam, che ha avuto un'infanzia da scavezzacollo dietro a quel padre un po' matto. Lui di suo padre dice: gli sono grato che mi ha drizzato la schiena a forza di calci in culo. Ma i suoi figli li ha coccolati come principini, anche perché sono stati costretti a seguirlo in esilio. Abbiamo passato con lui una lunga mattinata nel suo ufficio milanese e devo dire che,la sua genuinità ha qualcosa di commovente. E' un fascistone bonario, così come; avrebbe potuto essere uno dègù ultimi bolscevichi se fosse nato russo. E' di quelli che crede nella fedeltà, odia i voltagabbana, i politicanti, come nei racconti americani: il buon detective è un povero diavolo che crede negli ideali, e se è un duro, è sempre un po' fascista. Mi regala un disco di jazz di Romano Mussolini, e un bel pacco di fotocopie sulla sua vita avventurosa. Mi porta nel suo museo di macchine fotografiche, di strumenti scientifici da spione tecnologico. E parla, man mano che si fida, che si scioglie, E' un narratore secco, non va per il sottile. Chi ha meno di trent'anni forse non l'ha mai sentito nominare. Chi ne ha di più ricorda che questo gigantesco investigatore fu travolto da uno scandalo: quello delle intercettazioni telefoniche nel biennio 1971-1972, uno scandalo che investi ministri, poliziotti, servizi segreti. Una vicenda lósca e cupa, di quelle all'italiana, culminata nell'attacco contro il psi di Giacomo Mancini. I socialisti uscirono fiaccati da quella storia e dalla campagna stampa che ne seguì e alla fine saltò fuori che il capo degli spioni che avevano messo le «cimici» ai ministri, era lui, Tom. Ponzi. Ma si dichiarò innocente allora e ancor più oggi, che è stato assolto da ogni accusa. E allora chi fu? Fu una storia, dice*, di poteri occulti, in cui serviva anche uno che pagasse per tutti e scelsero me, ma io mica ero fesso. Fu ordinato il suo arresto, e lui riuscì a fuggire, si rifugiò a Nizzaaove rimase sei anni. Poi fu prosciolto. C'entrava semmai, racconta, il suo vecchio ex amico Walter Beneforti, un altro duro che veniva dalla formidabile squadra di Trieste, quella che aveva lavorato con l'Intelligence Service inglese durante l'occupazione e che poi si era trasferita al Viminale costituendo il gruppo, il «Circus» direbbe Le Carré, dell'Ufficio affari riservati del ministero dell'Interno. Ma Tom Ponzi, benché circondato da cinquecento uomini, mise nel sacco tutti e se la squagliò a Nizza, con la figlia Myriam e gli altri due suoi ragazzi. Per arrivare a parlare con lui siamo prima stati filtrati, per così dire, da sua figlia Myriam che ci ha ricevuto a Roma. Donna bella, elegante, grande massa di capelli corvini, un po' gelida, anche se gentile. E diffidente: «Papà non parla... Bon, ci provi e vediamo se la riceve». Telefoniamo a Tom Ponzi e «Soe peho dcolp con un po' di diffidenza accetta di ricevermi. Appuntamento a Milano. Ed eccoci davanti alla sua scrivania. Il cane lupo Dox ringhia anche se guardo il suo padrone. Ecco il suo racconto. «Ho sempre insegnato io alla polizia italiana, almeno per i primi vent'anni. Loro non capivano, non avevano gli strumenti e io ho fornito tutte le attrezzature, specialmente al capo della Mobile, Nardone, quello che diventò poi il mio peggior nemico. Perché mi hanno odiato? Primo: perché a me della politica non me né frega niente e così non ho dovuto riciclarmi nei partiti di governo, come hanno fatto loro. Secondo: senza volere li ho umiliati con i miei successi. Terzo, siccome aveva il coraggio di ammettere di essere rimasto delle stesse idee di quando avevo vent'anni, al momento di far fuori qualcuno hanno pensato bene che io ero la persona ideale per pagare le loro colpe. Comunque, io prestavo alla polizia dei giochini che valevano un capitale, e loro me li restituivano sfasciati. Regolarmente». «Io vivo da sempre a Milano, ma sono di famiglia romagnola, vicino Lugo di Romagna, le terre di Francesco Baracca, l'asso dell'aviazione. Sono cresciuto a tagliolini, Lambnisco, pasta e fagioli e i capp'lett, idee semplici e patriottiche. Credo negli ideali e nei valori semplici. Sto dalla parte dei drogati, poveretti. I genitori mi ingaggiano per ritrovarli e io li ritrovo, ma vedo ragazzi che sono stati distrutti dalle famiglie, altro che droga. «Come ho cominciato questo lavoro? Perché dopo la guerra quelli come me che erano passati alla repubblica sociale non li assumevano da nessuna parte. Bisognava arrangiarsi. Allora mi sono ricordato che da ragazzo andavo al cinema, andavo pazzo per i polizieschi e avevo un dono di Dio, scoprivo subito l'assassino nei polizieschi: è lui. Sempre. Vado alla polizia per chiedere la licenza di investigatore. Mi ridono in faccia: investigatore tu? Tu puoi fare al massimo l'informatore. Imparammo le tecniche di pedinamento: trasmittente nel tacco e via. Mio figlio ha inseguito un boss della mafia dagli Usa all'Inghilterra all'Italia. Di notte quello metteva le scarpe fuori della porta in albergo, e lui gli cambiava la batteria. Signorina, mi porti qui la cartella "Atti eroici" per favore. «E poi li mandai in bestia con la storia della scolaresca rapita, se la ricorda? Guardi qui: i fatti di Terrazzano, 1956. Si ricorda? Due balordi prendono in ostaggio una scolaresca, bambini e maestre. Uno dei due sempre alla finestra con la pistola, l'altro dietro, defilato. Capisco che quello è succube del primo. La polizia schiera mille uomini, anche i carri armati. Non combinano niente. Arrivo io, prendo una scala a pioli, sale con me il povero operaio Sante Zennaro, ci arrampichiamo, quello mi sta per sparare, ma crack, si spezzano due pioli, pesavo centoquaranta chili, lui allunga la mano, io gliela prendo e la stritolo, lui molla la pistola, io entro, quello si gira e io beni;, un destro che non perdonava. Steso. L'altro balordo è terrorizzato, mi vede con l'arma del suo compagno e mi offre la sua, dalla parte del calcio. La prendo e la getto nel secchio in cui i bambini avevano fatto la pipì per due giorni. Mi affaccio, mostro l'arma e grido: tutto finito, si sono arresi, tutti salvi, neanche una goccia di sangue. Ma la polizia sta appostata e quando il mio amico Sante Zennaro schiude la porta, ta-tà, diciassette colpi, lo fucilano, per far vedere che sono intervenuti. Dico, ma che fate, stronzi, non vedete che è tutto finito? Entrano. Sante Zennaro è cadavere in un lago di sangue, i funzionari si bagnano le mani in quel sangue e si sporcano il viso per far vedere che c'è stata colluttazione. Danno a bere che Sante è stato ucciso dai banditi. La mia presenza li imbarazza. Fra me e loro ormai è guerra. Ci crede? Non ho avuto neanche una citazione, un premio morale. Nulla. Io non esisto. «Veniamo allo scandalo delle intercettazioni. L'affare della mia rovina. Sì, una porcata. Tenga conto che io sono stato assolto da tutto, prosciolto. Amnistiato per l'ipotesi che io abbia dato una mancia a uno della Sip per poter intercettare. Si figuri che me ne faccio io della Sip. Volendo io attacco un "infinit", ottomila chilometri di portata, me ne sto qui a casa mia e sento che dicono in bagno di quell'appartamento a New York. Io feci la bonifica ai telefoni di Eugenio Cefis, tutti impestati di fili. C'erano di mezzo, fino al collo, il questore Nardone, Walter Benefoiti e tutti gli altri. Gente che veniva da me e si faceva prestare le attrezzature, poi le scassava. Secondo me lo faceva apposta. Nardone era un altro che non mi perdonava i miei successi, non mi perdonavano di avergli fatto fare mille figure di merda. E poi si ricorda: c'era quel tal Pontedera, alias Fabbri, che spiava dentro il ministero dei Lavori Pubblici per conto della Guardia di Finanza. In quel caso lavoravo per l'intercettato, la vittima. «Quelli vedono l'occasione buona per darmi la croce addosso e liberarsi di me. Schierano cinquecento uomini per prendermi. Ma io li beffo tutti e fuggo a Nizza, tue Verzie, sei anni a girarmi i pollici. Alla fine ottengo la licenza per cominciare in Francia, ma ecco che in Italia sono amnistiato e posso tornare. Assolto da tutte le imputazioni. Abbiamo ricominciato, ricostituito il parco macchine, gli strumenti, tutto. Adesso abbiamo creato un sistema formidabile antisequestro, prevenzione, alta tecnologia. Non posso dirle altro. Specializzati in inchieste ecologiche: noi scopriamo chi inquina, chi viola la legge. Su Seveso non è stata mai fatta la vera inchiesta, noi ne sappiamo qualcosa. Siamo i maestri del computer». Dox ringhia. L'investigatore mi fa vedere una vetrina piena di orologi col microfono, binocoli con la telecamera, macchine Minox miniaturizzate e il famoso chiodo maledetto, si chiama così, che lo pianti nel muro a martellate sopra un quadro e quello ti fa da microfono anche ri ese» venti piani sopra di te. Si muove con un po' di lentezza: il peso, il diabete controllato, il rimpianto per una gioventù da campione. La nostalgia gli incrina la voce, mi mostra i dieci volumi delle dispense della sua scuola e ricorda quando scoprì i contraffattori del profumo Chanel a Forcella a Napoli e costrinse la polizia ad intervenire. Gli chiedo se faceva parte di Gladio. Risponde che ne avrebbe fatto volentieri parte, ma che nessuno gliel'ha chiesto. Dà per ovvio che Gladio e P2 dovessero essere legati fra loro, ma non sa dire come: «Ci furono degli ufficiali dei carabinieri che mi corteggiarono a lungo perché facessi qualcosa di segreto. Ma dissi subito di no e non so di che si trattasse». Mai indagato sulle Brigate rosse? «No, ma fui testimone del modo in cui lo Stato mandò a morire quel povero sindacalista comunista, quel Guido Rossa, persona perbene. Lui riferì dei volantini che i brigatisti nascondevano in fabbrica dentro gli armadietti, quelli lo portarono a testimoniare, senza proteggerlo. E lo fecero ammazzare così, come un cane». Quale indagine gli sarebbe piaciuto condurre? Tom Ponzi non ha esitazioni: «Il mostro di Firenze. Sono sicuro che era uno straniero, un inglese. Avevo preparato tutto: macchine civetta, dei manichini semoventi nelle automobili, fotografie ad infrarossi, un apparato infallibile. Non ne hanno voluto sapere. Perché dico che era inglese? Perché quella è gente che va con la luna, tipi strani, un turista: chirurgo, o anche calzolaio, esperto in pelli». E del delitto Lima che pensa? «Roba politica, la mafia è m politica: tutto per fottere Andreotti che è il gobbo più dritto d'Italia. Sa che disse un giorno Andreotti alla Camera? Disse: bene, visto che non siamo riusciti a far funzionare come si deve i servizi segreti, io che avrei dovuto fare? Rivolgermi a Tom Ponzi? Se l'avesse fatto era meglio. Ma c'è sempre tempo: la Tom Ponzi Investigations, mi permetta -. e piantala di abbaiare, Doxl - non ha rivali». Paolo frizzanti «Sono di fede fascista e per questo motivo ho dovuto pagare colpe mai commesse» «Avrei fatto volentieri parte di Gladio. Per me il mostro di Firenze è un inglese» La figlia Myriam gli fa da segretaria A sinistra Eugenio Cefis, sopra il socialista Giacomo Mancini. Nella foto grande Tom Ponzi al processo per l'assalto alla scuola di Terrazzano Tom Ponzi ha settant'anni, da giovane è stato pugile e paracadutista