PAZ: UN ALTARE PER SUOR JUANA di Angela Bianchini
PAZ : UN ALTARE PER SUOR JUANA PAZ : UN ALTARE PER SUOR JUANA Il Nobel racconta la poetessa messicana del '600 DURANTE il XVII e il XVIII secolo, la Nuova Spagna, vale a dire il Messico attuale, era un «Paese enorme, prospero e pacifico», una «realtà in piena espansione», cangiante, tuttavia, e non priva di contraddizioni e tensioni. Le più evidenti dipendevano dalla sua collocazione eccentrica all'interno dell'impero spagnolo, dove non figurava come vera e propria colonia, bensì regno indipendente, governato dal potere, sia pure a tempo determinato, del viceré, costretto a confrontarsi, però, anche nell'esercizio della Real Audiencia, cioè della politica generale e della giustizia, con la figura del vescovo. Tanto più singolare appare perciò il fatto che, in questa società chiusa, dalla cultura trapiantata e irradiata dalla corte, dal linguaggio ermetico, in gran parte orale, manipolato dagli uomini, lo scrittore più importante sia stata una donna, che era anche suora. Si tratta, naturalmente, di Juana Inés de la Cruz, una delle voci poetiche più alte, ma anche enigmatiche di tutti i tempi. A lei, Octavio Paz, anch'egli poeta e messicano, premio Nobel 1990, ha dedicato un'imponente biografia, frutto di un lungo percorso innamorato che ebbe inizio a Parigi nel 1950 e continuò attraverso i corsi offerti alla Harvard University: Suor Juana o le insidie della fede, traduzione di Glauco Felici, introduzione di Dario Puccini, Garzanti, pp. 685, lire 70.000. Secondo le parole di Puccini che, nella sua qualità di studioso di suor Juana, autore, fin dal 1967, di un fondamentale saggio, molto lodato da Paz, offre in questa biografia un secondo filtro critico, l'incontro tra Paz e la suora messicana ha il carattere di coinvolgimento totale e fatale. Nel riflettere sul mondo della Nuova Spagna, Paz compie, in realtà, anche una profonda riflessione sul ruolo dell'intellettuale alle soglie di un mondo moderno che, nelle strettoie del presente, gli è appena dato intuire. Dice Paz: «Da un lato la società in cui visse suor Juana... ci aiuta a comprenderla; dall'altro, ce la nasconde... Suor Juana, come ognuno di noi, è l'espressione della sua epoca e anche la negazione, ne è l'eroina e la vittima». E sta qui, in questo doppio ruolo della società e della protagonista, il gran tema di un'opera poderosa che è critica letteraria, ma anche affresco affascinante, tracciato secondo i tratti arditi della saggistica spagnola, in parte novantottesca, e influenzata, perciò, dal grande esempio anglosassone. Pochissimi, com'è noto, i dati biografici di Juana de la Cruz, nata, a quanto sembra, nel 1648, all'ombra del vulcano Popocatépetl, figlia illegittima di una madre creola. A dieci anni va a Città del Messico presso parenti benestanti, a sedici entra nella corte del viceré e diventa intima della viceregina. Dopo un tentativo di seguire la regola, per lei troppo dura, delle Carmelitane, prende, intorno ai vent'anni, i voti nel convento di San Geronimo. Lì, in un'atmosfera molto indulgente e confortevole, unendo i fasti del convento a quelli del salotto, circondata dai suoi libri, dedicandosi soprattutto alla poesia, assurge alla fama di «Decima musa», e «Fenice d'America». Muore nel 1695, mentre, durante un'epidemia, assiste i malati. Tre grandi iati, scorci vertiginosi, rivelano il profondo disagio di una vita, in apparenza, soddisfatta. E si tratta di tre avventure intellettuali. Innanzitutto, la produzione poetica, in gran parte amorosa, poi, un poemetto, Primer Sueno, che, lungi dall'esser un «cammino di perfezione», teresiano, è invece un viaggio dell'anima, fatto di ansie e di ardimenti quasi romantici, e, infine, la Risposta a Suor Filotea, confessione autobiografica che segnò anche la fine della sua libertà intellettuale. Il legame con la sua terra e i segni dell'universalismo religioso marcano la parte popolare dell'opera poetica di suor Juana e in particolare dei villancicos, destinati, in varie cerimonie, a un popolo da evangelizzare. Ma tra le situazioni canoniche del petrarchismo ispanico, vicino a Góngora e a volte anche a Quevedo, si odono i toni dissonanti di una lirica amorosa di chiara libido, e «libido senza sbocco», come la definisce Paz. Sono le liriche destinate a Lysi, in realtà la contessa di Paredes, la viceregina del tempo. Ed è una passione, questa di suor Juana, che Paz tratta quasi romanzescamente, con grande delicatezza, senza cedere a spiegazioni psicanalitiche, sottolineandone il carattere fondamentale di «amicizia amorosa» e collegandola, più che a propensioni lesbiche, alla scelta del convento che, per suor Juana come per molte donne dell'epoca, era niente più di un impiego. Del resto, com'è noto, la vera spiegazione delle sue inclinazioni la diede suor Juana stessa, nella Risposta a Suor Filotea, autodifesa offerta alle censure, sia pur velate del vescovo di Puebla, quando sottolineò di avere scelto «lo stato monacale» come il più congruo per la sua salvazione, per il «netto rifiuto» che provava per il matrimonio e per l'inclinazione «a vivere sola», senza alcuna occupazione che intralciasse la libertà dei suoi studi. Questo brano famoso, interpretato, da Karl Vossler in poi, nei più vari e anche crudeli dei modi, deve certo essere riportato alla sua «congenita inclinazione al sapere», ma restituisce, e concordiamo con Octavio Paz, un'essenziale solitudine. «Sola, ma non solitaria, suor Juana visse nel suo mondo e con il mondo. Altrettanto accade con ciò che ho chiamato, non molto propriamente, la sua "mascolinità": convive con la più intensa femminilità». A volte troppo ottimista nel saldare rotture, nel curare antiche piaghe pubbliche e private, questa di Paz è una biografia appassionata che, attraverso raffronti ideologici e temporali, ricrea per il lettore una figura dai contrasti più estremi: viva, «dopo secoli di sepoltura». Angela Bianchini
Luoghi citati: Città Del Messico, Messico, Nuova Spagna, Parigi, Spagna
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