Ma Intini va all'attacco

Ma Intini va all'attacco Ma Intini va all'attacco «Parlare di Stalin è ancora reato» ROMA. «L'Italia sembra essere rimasto l'unico Paese al mondo dove approfondire i crimini dello stalinismo possa essere visto come reato». Lo ha detto Ugo Intini, portavoce della segreteria psi, nel corso di un discorso tenuto a La Spezia, dove ha affrontato anche le vicende dei prigionieri italiani dell'Armir «reclutati» in Russia e dell'inchiesta avviata per la pubblicazione della lettera di Togliatti. «Nulla che riguardasse l'italia e gli italiani - ha detto Intini accadeva a Mosca in quegli anni senza che Togliatti e i dirigenti del pei sapessero e approvassero. Essi erano prima dirigenti stalinisti dell'internazionale comunista, poi italiani. I comunisti esuli in Russia che si mantennero innanzitutto italiani e liberi furono sterminati negli Anni 30 con la connivenza dei loro dirigenti. Non vorrei che anche queste affermazioni fossero considerate false, tendenziose, atte a turbare l'ordine pubblico e perseguibili penal- mente». In merito alle rivelazioni sul reclutamento di prigionieri italiani da parte degli stalinisti, è intervenuto anche il generale Gianalfonso D'Avossa, capolista del psdi nel collegio di UdineBelluno-Gorizia-Pordenone. Il generale ha inviato una «lettera aperta» al presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, per chiedere di rispettare «con il silenzio quella tragedia cinquant'anni dopo» e ricordare come «la saggezza dei nostri padri ha fatto sì che quella immane tragedia venisse riassorbita dalla coscienza di tutti i cittadini». Reazioni anche dall'Unione italiana reduci di Russia: «Sui soldati e gli ufficiali italiani che avevano collaborato con l'Unione Sovietica sapevamo tutto già dal '45-'46», ha dichiarato Paolo Resta, delegato nazionale della presidenza. E ha ricordato che il 7 luglio '46, all'atto del rimpatrio della prima tradotta ufficiali alla stazione di confine a Tarvisio, «gli ufficiali italiani avevano malmenato 31 dei colleghi collaboratori dei sovietici». «Ma nel '58, in un modo inspiegabile, le autorità governative italiane ordinarono l'annullamento dei procedimenti disciplinari. Solo uno pagò per tutti: l'imbecille che non aveva raccomandazioni, il sergente Antonio Mortola, che si fece 18 anni a Gaeta, per una condanna a 22 anni». [Ansa] Ugo Intini, portavoce psi