Dal belcanto all'Italia unita di Giorgio Pestelli

Dal belcanto all'Italia unita Sorprese e segreti dell'800 Dal belcanto all'Italia unita Giuseppe VerdA come sentono Ja musica, questi fiorentini (...). Ma come la sentono...», continuava a ripetersi Emilio Cecchi con orgoglio di concittadino, osservando una coppietta che a ogni guizzo del Trovatore in piazza della Signoria si sdilinquiva e si stringeva in trepida intesa; salvo accorgersi, per una frase dell'uomo durante l'intervallo, che non di fiorentini si trattava, ma di turisti americani, e «dell'America più rozza», venuti a portare d'oltre oceano la loro estasi musicale e amorosa nel Paese del melodramma. Il fatterello, in «Carro di Tespi» di Corse al trotto, è uno dei tanti che dicono l'amore per l'opera italiana nutrito dai popoli anglosassoni, un amore corroborato di lontananza e di esotismo; anche da noi si ama l'opera, ma con un tono più interno e diretto, magari furente; con l'oceano o le Alpi di mezzo, nasce quel distacco climatico che consente effusioni più patenti, esaltazioni più liriche e disposte all'accettazione incondizionata. Così, anche un libro come questo di John Rosselli, Sull'ali dorate - Il mondo musicale italiano dell'Ottocento (Il Mulino) poteva venire solo da uno studioso esterno alla musica (ha insegnato fino a qualche" anno fa Storia moderna all'Università del Sussex), nato a Firenze da Carlo Rosselli e da una cittadina britannica, ma poi divenuto inglese di lingua, mentalità e metodo di lavoro. Sennonché in lui l'esaltazione mitizzante di tanti suoi connazionali si è curiosamente condensata, e quasi depurata, in ricerca d'archivio, in una sorta di ebbrezza documentaria riversata su carteggi, contratti, capitolati, regolamenti, che tanti risultati rischiarando carriere, mestieri, sistemi produttivi - ha già dato in precedenti pubblicazioni. Diviso in due parti, prima e dopo l'Italia unita, Sull'ali dorate osserva con sguardo lenticolare, ma senza apparati eruditi da addetti ai lavori, il costume musicale italiano dalla fine del 700 alla Grande Guerra nella sua pittoresca realtà: quel mondo dell'opera lirica che gli italiani, proprio perché così italiano, hanno sempre avuto un certo pudore a indagare e divulgare in tutta la sua completezza e quindi anche nelle miserie della sua vita materiale. Per il fluttuare dei dati sembra più uno zibaldone di casi che un libro vero e proprio (cioè costruito), ma alla fine il lettore riesce tuttavia a percepire il clima storico del nostro '800: dove ^industria» dell'opera si afferma come il più grande sforzo di organizzazione unitaria prima dell'Unità, oltreché l'unica espressione artistica italiana impostasi durevolmente in campo internazionale; senza l'opera, il quadro dell'Italia dell'800 manca di una dimensione essenziale a intenderne l'evoluzione e l'assetto culturale. Su tanta varietà di usi e costumi il linguaggio operistico dilaga agguagliando tutto (un caso limite: il «Largo al factotum» del Barbiere cantato per un matrimonio a Baveno negli Anni 80 durante l'elevazione); l'addestramento era breve e funzionale all'impiego immediato, delle moderne idee di «perfezionamento» o di studio per se stesso non esistendo neppure il sentore; molti suonavano e cantavano, e il limite incerto fra dilettanti e professionisti era garanzia di una fe¬ conda coesione: «Nel 1816 Rossini trasalì scoprendo che il barbiere che lo radeva ogni mattina era il primo clarinetto del suo Torvaldo e Dorliska»; e qualche anno dopo Berlioz frequentava orafi e tappezzieri che suonavano in orchestra al Teatro Valle. Il concetto di «illusione drammatica», radicato nella cultura teatrale europea dalla metà del 700, nell'opera non era molto sentito, tanto che un cantante tra una scena e l'altra poteva andarsi a sedere in piena vista in un palco; del resto, il teatro all'italiana era costruito con Io scopo di mettere in evidenza il gruppo dirigente anche del più piccolo Stato italiano, con la gerarchia di nobili e borghesi ben ordinata nei palchi; la galleria, quando c'era, «serviva per i bottegai, gli artigiani, i soldati e i servi», non per gli operai (l'ingresso alla galleria della Scala costava la paga giornaliera di un operaio) e non «per la grande maggioranza degli italiani che erano contadini e non si erano mai avvicinati a un teatro d'opera»: l'idea corrente dell'opera come forma di spettacolo «popolare» è da riconsiderare o da intendere in modo del tutto ideale. Sulla qualità culturale degli attori primi del melodramma, cantanti e musicisti, Rosselli allinea impietose annotazioni: nel 1838 il contralto Adelaide BorghiMamo scriveva: «Una cosa che mintresa asai»; sul palco, nei rapporti di lavoro, la scurrilità e la bestemmia erano comuni; «A giudicare dalle regole sanitarie del 1798 alla Scala, se non controllati, gli orchestrali non stavano molto attenti a dove orinavano in teatro»; W. E. Gladstone, che assiste a Roma al concerto di una cantante, registra nel suo diario: «Noi non siamo abituati a vedere delle signore che sputano per terra nel bel mezzo di un'aria». Eppure a tutte queste esuberanze corrispondeva la tumultuosa vitalità del genere; sul quale proprio il movimento moralizzante del Risorgimento introdurrà i primi elementi di crisi. Anche qui dobbiamo rassegnarci ad archiviare il luogo comune edificante che vede il processo unitario del nuovo Stato italiano accompagnato e quasi cantato epicamente dalle fortune del melodramma. Al contrario, il 1848 segna una prima spaccatura, approfondita dalle guerre del 1859 e infine dalle leggi del 1868 che toglievano le sovvenzioni ai teatri gravandoli anzi di tasse. Anche la cultura ufficiale, dopo l'Unità, cominciò a prendere le distanze e a lasciare l'operista senza una funzione adeguata: il pregiudizio moralistico, vivo ancora oggi, che attribuisce all'opera i difetti degli italiani, propensi a mettere tutto in cabaletta invece di ragionare, era nato in quegli anni cruciali. Nel panorama tutto di prima mano di John Rosselli si annida qualche stereotipo (Tristano e Isotta quale «origine della musica moderna») e qualche disinvoltura, come si dice, giornalistica; una è sintomatica: è un po' poco definire il naturalista Michele Lessona, apostolo del darwinismo in Italia, «un autore di popolari libri di fai da te»; ma, appunto, l'Italia europea degli studi positivi e scientifici non è quella per cui palpitano gli appassionati anglosassoni dell'opera in musica. Giorgio Pestelli Giuseppe Verdi

Luoghi citati: America, Baveno, Firenze, Italia, Roma