Herling due volte solo fra i rossi

Herling due volte solo fra i rossi Parla lo scrittore polacco da 40 anni testimone della cultura italiana Herling due volte solo fra i rossi «Nel mio Paese la dittatura, qui la reticenza» NAPOLI DAL NOSTRO INVIATO Dieci anni prima di Una giornata di Ivan Denisovic di Solzenicyn, venti prima di Arcipelago Gulag, Gustaw Herling aveva già consegnato al mondo la sua testimonianza sull'inferno dei Lager di Stalin. Scritto nel '51, Un mondo a parte racconta l'epopea vissuta dallo scrittore polacco quando, catturato nel 1940 dai sovietici mentre si recava in Scandinavia per combattere contro i nazisti, venne rinchiuso in un campo fino al 1942. Pubblicato prima nel 1958 e poi nel 1965, ben pochi in Italia si accorsero di quel libro straordinario che oggi in Polonia ha già venduto 250 mila copie. Feltrinelli ne annuncia una nuova edizione per l'inizio del '93; ma intanto, a fine mese, manderà in libreria la prima edizione italiana del Diario scrìtto di notte, una miscela di ritratti, racconti, considerazioni politiche e letterarie, ricordi che lo scrittore ha elaborato nel corso dei decenni. Herling vive a Napoli dal 1955, dopo aver sposato Lidia, la terza figlia di Benedetto Croce. Settantatreenne, parla ancora con cauta lentezza per evitare le insidie della lingua italiana. Nel suo studio zeppo di libri spicca la collezione completa di Kultura, la rivista dell'emigrazione polacca con sede a Parigi di cui è stato sin dalla fondazione autorevole collaboratore, e quella di Tempo Presente, la rivista di Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone cordialmente detestata dalla cultura che dal '56 al '68 ha gravitato attorno al pei. Nelle parole spesso amare di Herling si rivelano le tracce di una doppia solitudine: quella di un esilio durato mezzo secolo e quella dell'intellettuale malvisto dalla cultura egemone nel Paese che lo ha ospitato. «Nessun rancóre», dice 'Herling. Ma l'eco di quel duplice isolamento risuona in ogni pagina del Diario scrìtto di notte, l'opera più impegnativa di uno scrittore che in oltre due ore di conversazione sembra smentire la sua apparente imperturbabilità soltanto in un'occasione: quando racconta del suo ritorno in Polonia dopo cinquantun anni di assenza. Dostoevskij e Kafka, Pasternak e Camus, il terremoto dell'80 e l'avventura di Masaniello a Napoli. Nel suo «Diario» appunti letterari, fatti di cronaca e storie fantastiche si intrecciano con pacatezza e senza ira. Con un'eccezione: l'allusione non proprio benevola all'«occhiolino furbesco di Moravia» in una birreria di Francoforte, anno 1960. Perché tanto rancore? Lascio giudicare i lettori. Alla vigilia del congresso internazionale del Pen Club, il caso volle che Moravia, allora indicato come il più probabile nuovo presidente di quell'organizzazione di scrittori, entrasse nella birreria francofortese dove mi ero recato per qualche momento di relax. Si sedette al mio tavolino e si mise a raccontarmi un episodio curioso. Il giorno prima, a Roma, si era fatto vivo con lui l'attaché culturale dell'ambasciata sovietica per comunicargli la buona novella: finalmente a Mosca avevano deciso di permettere in Urss la circolazione dei suoi libri, da sempre bollati come «osceni» e contrari ai princìpi dell'arte sovietica. Niente di strano. Non fosse stato per quella strizzatine d'occhio e per quella leggera gomitata di complicità con cui Moravia accompagnò la sua domanda: «Che vorrà dire?». Già, che cosa voleva dire? L'ho capito l'ultimo giorno del congresso. Era stata messa in votazione la proposta di sospendere la sezione del Pen Club di Budapest finché non fossero stati scarcerati gli scrittori ungheresi arrestati dopo l'insurrezione del '56. A favore della proposta votò perfino la delegazione polacca, composta esclusivamente di intellettuali del regime. E invece come si comportò Moravia? Votò contro «per non ingerire nelle questioni interne ungheresi». Per questo non dimenticherò mai quell'occhiolino furbesco, e quel suo darmi di gomito. Però Moravia collaborava a «Tempo Presente». Le parlò mai del suo «Un mondo a parte»? No, non me ne parlò mai. E del resto come avrebbe potuto parlare di un libro che in Italia era praticamente inesistente? Come sarebbe a dire «inesistente»? Non era stato pubblicato da Laterza nel '58? Laterza, editore di Croce, lo stampò controvoglia; quasi per un obbligo, diciamo così, familiare. Dubito persino che l'abbia distribuito, visto che, girando per le librerie italiane, allora non ne vidi mai una copia. Ciò detto, con le sole eccezioni di Paolo Milano e di Leo Valiani, quel libro fu ignorato del tutto. E lo stesso accadde nel '65 quando, per volontà del compianto Domenico Porzio, il libro uscì da Rizzoli. Nessuna reazione: solò un bell'articolo di Giancarlo Vigorelli e una recensione su Paese Sera in cui si suggeriva alle autorità italiane di espellermi dall'Italia. Ma non mi lamento. Anche Arcipelago Gulag ha subito la stessa sorte. E in un caso e nell'altro non è mancato chi ha voluto almanaccare sulla «scarsa qualità letteraria» di quelle testimonianze. Vecchia abitudine. A cosa allude? A un malcostume. intellettuale: quello che consiste nel sollevare pretestuose considerazioni estetiche per delegittimare nella sua interezza un libro o un autore scomodo. A Natale mi hanno regalato I libri degli altri, il volume che raccoglie le lettere editoriali di Italo Calvino e con grande costernazione ho trovato una lettera destinata a Geno Pampaloni in cui si parla di George Orwell come di «un libellista di second'ordine». Non bastava dire che Orwell era «anticomunista». Occorreva aggiungere, con eccesso di zelo e con un sovrappiù di ferocia, che era anche uno scrittore dozzinale. E non era un caso isolato, se argomentazioni ana¬ loghe furono spese persino per il Dottor Zivago di Pasternak. Lei pensa davvero che in Italia ci sia stata una «dittatura culturale» esercitata dai comunisti? No. La dittatura culturale, dittatura tout-court, c'è stata in Polonia. Qui, come dire, ha prevalso piuttosto una tranquillizzante abitudine alla reticenza. «Tempo Presente» poteva uscire senza che nessuna censura poliziesca glielo impedisse. Bastava farle il vuoto attorno, non parlarne mai. Non che però quel clima omertoso non nascondesse egualmente tratti odiosi. Ma ciò che è peggio è che talvolta la palma dell'odiosità finiva per spettare di diritto ai non-comunisti timorosissimi di passare per anticomunisti. Per esempio? Poco dopo il mio arrivo in Italia, nel '56, l'amico Valiani mi propose di scrivere un articolo sulla rivolta di Poznan per l'Espresso diretto da Arrigo Benedetti. Non conoscevo ancora bene la lingua italiana ma accettai di buon grado e con l'aiuto di mia moglie spedii l'articolo il più presto pos¬ sibile. Dopo qualche giorno ricevo un biglietto di Benedetti più o meno di questo tenore: «Posso comprendere i suoi sentimenti di esule ma le cose che lei scrive non sono obiettive e appaiono per di più scarsamente documentate». Risposi così: «Se vuole i documenti che dimostrano come la rivolta polacca sia opera della Cia, basterebbe che lei si rivolgesse all'Ambasciata polacca». Si badi che Benedetti era tutt'altro che comunista. Ma sulla rivolta polacca aveva opinioni molto simili a quelle dello scrittore Carlo Levi a proposito dell'Ungheria. Che c'entra Carlo Levi? Perché mi viene in mente un episodio della fine del '56. Mi trovavo con Nicola Chiaromonte al bar Rosati. A un certo punto entra Carlo Levi, amico di Chiaromonte sin dall'esilio, e si mette a sproloquiare sulla rivoluzione ungherese. Per un po' Chiaromonte rimane in silenzio, ma quando Levi chiede ad alta voce: «Chissà quanto avranno speso gli americani per organizzare la rivolta di Budapest», d'improvviso vedo Nicola avventarsi su Levi e cacciarlo dal tavolo davvero in malo modo. Darebbe torto al mio amico Nicola? Herling, dopo il crollo del muro cu Berlino quanto spazio ha ancora il risentimento nella sua vita? Nessuno. E vorrei che si credesse alla mia sincerità. E che effetto le ha fatto ritornare dopo cinquantun anni di assenza nel suo Paese? Un misto di gioia indicibile e di desolazione per le conseguenze davvero strazianti di decenni di «sovietizzazione» delle menti. Vorrei tornarci spesso, in Polonia. Sempre che il cuore me lo permetta. Una cosa so però con certezza: non sono più un esule. Ma soltanto uno scrittore che vive all'estero. Pierluigi Battista Dai Lager sovietici all'ostilità della sinistra. Ora il suo «Diario» esce da Feltrinelli «Quell'occhiolino di Moravia, lo zelo di Calvino, gli sproloqui di Levi sull'Ungheria» Alberto Moravia: Herling ricorda che nel I960, a un congresso del Pen Club, votò contro la proposta di sospendere la sezione di Budapest finché non fossero stati scarcerati gli scrittori arrestati dopo il '56 Qui sopra Ignazio Silone: la sua rivista «Tempo presente» era cordialmente detestata dalla cultura che gravitava intorno al pei. A destra Alexandr Solzenicyn Nella foto grande Gustaw Herling, 73 anni: dal '55 vive a Napoli, dopo aver sposato la terza figlia di Croce, Lidia. In basso, Italo Calvino