Jazz classico sì, ma il futuro ha un cuore rap di Gabriele Ferraris

Jazz classico sì, ma il futuro ha un cuore rap Si è chiuso ieri il festival di Ivrea con un trionfo dei vecchi eroi Nat Adderley, Jimrny Cobb e Walter Booker Jazz classico sì, ma il futuro ha un cuore rap La vera musica da strada è quella del quintetto di Williamson IVREA DAL NOSTRO INVIATO Aveva ragione il povero Miles Davis. S'era innamorato del rap, voleva lavorare con i Public Enemy; e tutti a pensare oddio, s'è bevuto il cervello. Però Davis cercava il futuro del jazz: e l'incontro fra la musica nera tradizionale e quella che fanno oggi i ragazzi dei ghetti, il rap, gli sembrò praticabile. Forse aveva davvero intravisto la via. La riflessione s'impone. Da venerdì a ieri, Ivrea ha ospitato l'Eurojazz, festival che apre la «stagione» e serve a rendersi conto dell'aria che tira. Da copione, trionfatori della rassegna, dedicata ai musicisti d'Italia e d'Europa, sono stati, sabato sera, cinque «ospiti» americani: una solida, classica band con tre vecchi eroi - il trombettista Nat Adderley, Jimmy Cobb il batterista, e Walter Booker, bassista - e due giovani che suo¬ nano come i grandi degli Anni Cinquanta, il sassofonista Vince Herring e il pianista Rob Bargad. Hanno deliziato la gremita platea con standard e brani originali, hanno esplorato «Autunni Leaves» e il blues, hanno offerto un concerto di luminosa perfezione, traboccante swing. Al confronto, persino il pianismo nobile ed elegante del francese Mattia] Solai può sembrar debole; persino un trio di stelle europee - Joachim Kuhn al piano, Daniel Humair alla batteria e Jean Francois Jenny Clark al basso - appare freddo. In compenso, il pubblico parte del pubblico - del Festival d'Ivrea s'è amareggiato per l'esibizione di un quintetto di coloured inglesi, guidato dal sassofonista Steve Williamson. Questi giovanotti vestono tute e berretti da baseball con su scritto «Malcolm X» e calzano Reebok. Già a vederli, si capisce da dove vengono e dove vanno. E soprattutto che cosa suoneranno, se proprio hanno deciso di non fare il rap come quasi tutti i loro coetanei in America e in Inghilterra. Suonano il funky forte e ossessivo che è la base sonora del rap - o dell'acid jazz, come dicono in Inghilterra. E chi ama il jazz di Nat Ad¬ derley - cioè il jazz di Parker e di Gillespie, il jazz dei maestri soffre ascoltandoli. Però, in Inghilterra questo è il «jazz» praticato dai giovani musicisti: non a caso l'acid jazz è un'invenzione della scena hip hop londinese. Negli States, la tradizione - il jazz senza virgolette - si insegna nelle scuole come la Berklee, che sfornano i maghetti alla Marsalis: è una musica che ha lasciato la strada per entrare all'università. Intanto, nelle strade d'America e d'Inghilterra i giovani neri fanno rap. Su basi funky. Che derivano dal rhythm 'n' blues. Cioè dal blues. Come il jazz. E allora, Steve Williamson e i suoi quattro soci in tuta e Reebok hanno diritto di cittadinanza in un festival che esplora le possibilità del jazz. In attesa di capire che cosa sia oggi, e che cosa sarà domani, il jazz. Gabriele Ferraris r Nat Adderley e i suoi hanno deliziato la platea con standard e brani originali, offrendo un concerto di luminosa perfezione, traboccante swing