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(nella foto sopra) al libro «The art of Mickey Mouse» appena uscito da Hyperion negli Stati Uniti stona John Updike lo scrittore di "Corri coniglio" spiega il suo amore per Mickey Mouse (nella foto sopra) al libro «The art of Mickey Mouse» appena uscito da Hyperion negli Stati Uniti stona TUTTO sta nelle orecchie. Quando Mickey Mouse (Topolino) nacque, nel 1927, il mondo dei primi I cartoni animati abbondava di umanoidi zoomorfi a due gambe, le cui strane facce seminere si distinguevano l'una dall'altra soprattutto in virtù delle orecchie. Felix il Gatto aveva orecchie triangolari e appuntite e Oswald il Coniglio - il primo cartone di successo ideato da Disney e da lui abbandonato allorché il suo distributore newyorkese, Charles Mintz, aveva cercato di imbrogliarlo - era dotato di lunghe orecchie flosce con alcune spezzature in cima a suggerire l'idea della pelliccia. I film dedicati a Oswald da Disney e i cartoni animati di Alice che li avevano preceduti proponevano già figure di topi, con membra lineari, code ispide e orecchie arcuate e oblunghe ma non ancora rotonde. Tornando in treno in California da New York, dopo aver lasciato Oswald alle prese con le macchinazioni di Mr. Mintz, Walt e sua moglie Lillian inventarono un altro personaggio basato - così sostiene la leggenda sui domestici topi di campagna che avevano l'abitudine di andarsene a spasso per il vecchio studio di Disney a Kansas City. La sua prima idea fu di chiamare quel topo Mortimer, ma Lillian propose invece il nome meno pretenzioso di Mickey. E in un punto imprecisato del tratto Chicago-Los Angeles, la giovane coppia elaborò la trama del primo cortometraggio animato di Mickey Mouse, Piane Crazy (L'aereo pazzo), che aveva come co-protagonista Minnie e che sfruttava l'entusiasmo scatenato da Lindbergh nel 1927. Il cortometraggio successivo prodotto dallo studio di Disney uno studio nato da poco che vantava tra i suoi membri, oltre Walt e Lillian, il fratello di lui Roy e Ub Iwerks, vecchio socio di Kansas City - fu Gallopin' Gaucho (Gaucho al galoppo). Esso introduceva il personaggio di un gatto grasso e cattivo che non portava ancora la protesi che in seguito gli avrebbe fatto attribuire il nome di Pegleg Pete (Pietro Gambadilegno). Il terzo cortometraggio, Steamboat Willie (Willie il Vaporetto), incorporava una novità assoluta, il sonoro, e fu il primo a essere distribuito. Così, nel 1928, Mickey Mouse entrò nella storia come l'invenzione più resistente e invadente della cultura popolare americana di questo secolo. Le sue orecchie sono due solidi cerchi neri, che prescindono dall'angolo secondo il quale egli piega la testa. Le immagini tridimensionali di Mickey Mouse - si tratti di pupazzi o delle teste di cartapesta che i Mickey Mouse di Disneyland indossano in maniera grottesca - ci procurano un senso di disagio, giacché le orecchie compaiono inevitabilmente sia di taglio che frontalmente. Sono orecchie che, in senso proprio, non appartengono a uno spazio tridimensionale ma allo spazio ideale della notazione, della simbolizzazione, della flessibilità e dell'indistruttibilità del cartone animato. Nei disegni, quando Mickey è di profilo, un orecchio si trova sulla nuca come una sferica coda di cavallo o come una bolla secondaria generata a computer in un campo di Mandelbrot. E' qualcosa che noi accettiamo, come abbiamo accettato i capelli di Lil Abner che si separano sem- pre di lato, quale sia la posizione in cui il suo volto si pone rispetto a chi l'osserva. E' una coerenza ottica surreale che fa parte integrante del mondo dei cartoni animati: qualcosa che sta a metà strada tra il nostro mondo e il mondo dei puri segni, degli alfabeti e dei marchi registrati. Nei sessantaquattro anni durante i quali l'immagine di Mickey Mouse si è diffusa, le orecchie, sia pure un po' più organicamente irregolari e flessibili delle appendici classiche degli Anni Trenta, non hanno subito modifiche sostanziali. Molte altre variazioni si sono invece verificate rispetto all'ancora grezzo cartone originale, nato in un'epoca di rigide stilizzazioni. Ad esempio i guanti (che sono quelli dei Minstrel Shows) comparvero soltanto dopo i primi cartoni degli Anni Venti, per coprire le mani nere. Il petto nudo infantile con i pantaloncini corti e i due bottoni vennero elaborati negli Anni Quaranta. Anche gli occhi hanno subito parecchie modifiche, la più drastica delle quali si verificò nei tardi Anni Trenta allorché, come sostengono erroneamente alcuni storici del genere, vennero muniti di pupille. In realtà non è così. Gli occhi originali, quelli neri e oblunghi che acquistarono una piccola tacca sui lati a indicare i loro riflessi, erano in realtà le pupille. Il bianco degli occhi occupava tutto lo spazio al di sotto della nera calotta di Mickey. Il contorno di questa segnava soltanto la divisione tra le orbite enormi. Lo si può vedere chiaramente nel viso classico di Minnie: quando lei batte le ciglia, la loro ombra merlettata s'abbassa su tutto l'arco di quella che si può considerare la sua fronte. Tutti i vecchi animali dei cartoni animati, del resto, erano costruiti in questo modo, almeno da Felix il Gatto in poi. Felix aveva palpebre inferiori, proprio come il Mickey di Piane Crazy. Fu dunque una sorta di errore evolutivo quello che, a partire dal 1938, sostituì alle vecchie pupille nere e brillanti occhi ovali interi che contenevano proprie pupille. Nessuna mutazione del genere ha avuto luogo in Pluto o in Goofy (Pippo) o in Donald Duck (Paperino). Il cambiamento rese Mickey più vicino a noi umani ma gli sottrasse parte della sua vitalità e della sua vivacità: quella disponibilità all'avventura che tra¬ spariva dai suoi occhioni da insetto animato. Lo rese meno astratto, meno iconico, più facilmente «carino» e un po' più «nanetto». Il Mickey originale che si agitava e si dimenava nei primi cortometraggi animati era angolare e molleggiato, ricco dell'impudenza e della disperazione caratteristica del vero roditore. In seguito venne a poco a poco arrotondato e ricondotto alle proporzioni del bambino: una regressione consacrata dalla sua immagine degli Anni Cinquanta di nume tutelare dello spettacolo televisivo per i piccoli, The Mickey Mouse Club (Il club di Topolino), con i suoi «Moschettieri» in carne ed ossa. Molti artisti tuttavia - pur essendo troppo giovani per essersi formati, come me, sulla vecchia immagine di Mickey - sono ritornati per istinto ad essa quando ne hanno utilizzato la figura. E' il classico Mickey a torso nudo con le scarpe gialle e i bottoni ovali sui pantaloncini corti a costituire l'icona autentica, che le versioni successive trasformano in un individuo insignificante dall'aria topesca con pantaloni lunghi. In quella sua manifesta- zione iconica originale c'era qualcosa di Chaplin: era l'immagine del piccoletto che raggiungeva per un pelo i limiti della rispettabilità. Le sue orecchie circolari, simili a due minuscoli soldini, alludono alla più piccola unità monetaria, parlano del trascurabile uomo democratico. Il nome di Mickey Mouse è entrato nel linguaggio corrente come sinonimo di «piccolo» e di «debole»: un'«opera zione alla Mickey Mouse» fa pensare a una compagnia che dispone di capitali insufficienti o a un intervento chirurgico di poco conto (...). A parte l'episodio omonimo di Fantasia e il recente H principe e il povero (un lavoro alquanto raffazzonato), Mickey concluse la sua vita di star nel 1940. Ma, proprio come accadde a Marilyn quando la sua carriera ebbe termine, la sua vita di icona assunse una forza ancor maggiore. LAmerica non simboleggiata da quello yankee imperiale che è lo Zio Sam è simboleggiata da Mickey Mouse. Mickey è l'America come l'America sente se stessa: audace, sicura, ardimentosa, inventiva, fiduciosa, reattiva. E, come l'America, Mickey ha in sé molto sangue nero: un fatto che mi venne rivelato durante una conversazione Con Saul Steinberg, il quale, nel tentativo di dipingere il miscuglio di razze delle strade newyorkesi per i suoi lettori del New Yorker, ipersensibili e ciechi alle realtà razziali degli Anni Sessanta e Settanta, finì per rifarsi parecchie volte a Mickey per rappresentare qualcosa che esisteva in maniera innegabile, anche se in forma chiassosa e un po' epidermica. Già il modo in cui Mickey si presenta caracollando nel suo atteggiamento più classico, levando in alto la mano guantata a tre dita, è una sorta di ritmo sincopato. Assieme alle orecchie nere e rotonde e alle scarpe gialle, Mickey possiede autentico soul. Riesaminando alcuni dei primi cartoni animati quali quelli di Looney Tunes' Bosko and Honey (1930-1936) e le figure arabe di Mickey in Arabia dello stesso Disney (1932), ci rendiamo conto che i negri venivano disegnati proprio come animali di cartoni animati, con nasi rotondi a bottone e grandi occhi bianchi che creavano l'arco doppio della sua singolare calotta. La qualità elastica e jazzistica dei personaggi dei cartoni ani- mati, il loro allegro e pigro ottimismo, tutto risulta in sintonia con l'immagine popolare degli afroamericani offerta inizialmente dai Minstrel Shows e dai Racconti dello zio Remo di Joel Chandler Harris, da cui proprio Disney avrebbe tratto in seguito un film d'animazione, Song of the South (Canto del Sud), nel 1946. Fino al 1950, i cartoni animati, come i film in genere, contenevano caricature dei negri che oggi risulterebbero inaccettabili. E' un fatto che persino Song of the South suscitò proteste da parte della Naacp, allorché venne distribuito. Nelle recenti riedizioni di Fantasia, due giovani centauro nubiane e una piccola centauretta che lucida gli zoccoli degli altri centauri sono state tagliate. E, al giorno d'oggi, nemmeno la splendida scena dei corvi di Dumbo sarebbe accettabile. Vi è tuttavia un senso in cui tutti i personaggi dei cartoni animati sono in maggiore o minor misura dei negri. Il movimentato tributo di Steven Spielberg al cinema di animazione, Roger Rabbit, li colloca tutti - dagli alberi canori delle SUly Symphonies a Daffy Duck e a Woody Woodpecker - a Tonville, un ghetto di Los Angeles. Proprio come i neri erano cittadini di seconda classe istintivamente capaci di divertirsi, così i cortometraggi animati erano film di seconda classe con attori irreali, che sbeffeggiavano e illuminavano dal basso il mondo reale, quello degli attori cinematografici in carne e ossa (...). E' stata l'opera di Claes Oldenburg ad indurmi per la prima volta a notare che Mickey Mouse era passato dal regno dell'immagine commerciale a quello degli oggetti artistici; al punto che la sua configurazione fondamentale, come quella degli hamburgers o dei telefoni a gettone, poteva venir usata come referente immediatamente comprensibile in un'opera d'arte. Il giovane Andy Warhol affidò alle proprie tele Dick Tracy, Nancy, Batman e Popeye. Ma soltanto nel 1981 fece lo stesso con Mickey Mouse. Forse la Pop Art riusciva a riciclare con maggior enfasi i fumetti che facevano appello al romanticismo degli adolescenti (...). Di solito, le figure dei fumetti non invecchiano. Invecchiano tuttavia i loro lettori e spettatori, sicché il peso dell'allusione e del riferimento sentimentale tende ad aumentare. Per il pubblico cinematografico dei primi Anni Trenta, Mickey Mouse era un burattino in carne e ossa con una vocetta acuta, l'ultimo grido nel campo dell'entertainment. Ma all'epoca dell'episodio dell'Apprendista Stregone in Fantasia, era già una figura alquanto sentimentale, un gradito ritorno. The Mickey Mouse Show, con il suo conduttore lievemente malinconico Jimmie Dodd, creò un Mickey più rimosso e marginale di quello primitivo. La generazione che lo vide si trasformò nei ribelli degli Anni Sessanta, per i quali Mickey divenne un fenomeno camp, un simbolo del fast food culturale statunitense, con un tocco (si pensi al disegno di Rick Griffin) della sua antica «bassezza» di roditore. Sul piano politico Walt, ferito dallo sciopero del suo Studio nel 1940, si spostò a destra. Mickey tuttavia resta un esponente del proletariato degli Anni Trenta e non si trova del tutto a disagio sui fogli fragili e allegramente «bassi» della controcultura. Nei parchi della Florida e della California, Mickey si presenta come una persona reale alquanto piccola, vestito come il direttore di un circo. Corre il rischio, in questi Anni Novanta, di sembrare non soltanto kitsch venerando ma di entrare addirittura a far parte del trash : un pezzettino di «spazzatura» visuale spinto avanti e indietro dai bulldozers del consumismo. Niente paura, comunque: la sua bontà di fondo riuscirà pur sempre a farsi luce. Ad andare perduto è forse l'amore semplice nutrito da alcuni esponenti della mia generazione che, come me, sono cresciuti con lui. Ricordo di essermi messo a piangere quando il giornale locale decise di ridurre le pagine dei fumetti per aiutarci a vincere la seconda Guerra Mondiale ed eliminò così la striscia di Mickey Mouse. Ero grande abbastanza (avevo nove o dieci anni) per scrivere una lettera furiosa al direttore del quotidiano. Di fatto, la striscia era stata eliminata in base ai voti raccolti tramite un sondaggio tra i lettori e la mia indignazione e il mio dolore scaturivano dalla constatazione incredula che non tutti amavano Mickey Mouse come me (...). Una volta cercai di scrivere un racconto intitolato A Sensation of Mickey Mouse (Impressione di Mickey Mouse), tentando di sovrapporre alla coscienza di adulto, a mo' di spettro suscitatore di brividi, quell'indescrivibile sensazione infantile. Quel gusto di gomma, quel profumo di liquirizia, quel senso di sovrannaturale chiarezza e di intima eccitazione che Mickey Mouse suscitava e suscita in me ancor oggi, pur se alquanto offuscato dagli anni. Mickey è un «genio» nel suo senso originale e primitivo di «spirito compagno», con il suo nero petto vulnerabile, le sue enormi e commoventi scarpe gialle, il luogo misterioso sul retro dei pantaloncini corti dal quale spunta la sua coda, il cuscinetto fessurato della sua lingua, rossa come un biglietto di san Valentino e lucida come un candito, che sempre fa capolino tra le curve a catenaria del suo sorriso che non si lascia mai scoraggiare. Per non parlare delle sue orecchie. John Updike (traduzione di Ruggero Bianchi) Resta un proletario degli Anni Trenta. Oggi rischia di diventare kitsch Vitalità jazzistica: come l'America Topolino ha in sé molto sangue nero TUTTO sta nelle orecchie. Quando Mickey Mouse (Topolino) nacque, nel 1927, il mondo dei primi I cartoni animati abbondava di umanoidi zoomorfi a due gambe, le cui strane facce seminere si distinguevano l'una dall'lt tttt i irtù dllJohn Updike lo scrittore di "Corri coniglio" spiega il suo amore per Mickey Mouse Pubblichiamo alcuni passi dell'introduzione di John Updike (ll f ) del riferimento sentimentale tende ad aumentare. Per il pubblico cinematografico dei primi Anni Trenta, Mickey Mouse era un burattino in carne e ossa con una vocetta acuta, l'ultimo grido nel campo dell'entertainment. Ma all'epoca dell'episodio dell'Apprendista Pubblichiamo alcuni passi dell'introduzione di John Updike (nella foto sopra) al libro «The art of Mickey Mouse» appena uscito da Hyperion negli Stati Uniti