Montanelli e il "sacco" di Milano

Montanelli e il "sacco" di Milano Intervista su corrotti e corruttori, sinistre e salotti, mentre esce una raccolta di editoriali dal 74 a oggi Montanelli e il "sacco" di Milano MILANO DAL NOSTRO INVIATO Il 25 giugno del 1974 usciva il primo numero del Giornale, fondato e diretto da Indro Montanelli, dopo la rottura con il Corriere della Sera di Piero Ottone. A 65 anni Montanelli affrontava l'impresa di dare vita all'unico esempio di giornale veramente conservatore degli ultimi vent'anni. L'articolo di fondo di quel primo numero diceva: «Questo giornale nasce da una rivolta e da una sfida». Rivolta contro il corrotto regime dei partiti e il malgoverno, sfida all'opinione pubblica rassegnata se non addirittura complice, commenta lo scrittore Manlio Cancogni, che ha curato una raccolta dei fondi montanelliani, insieme con l'avvocato Piero Malvolti della Fondazione Montanelli-Bassi di Fucecchio. Il libro s'intitola 71 testimone ed esce da Longanesi. Senta Montanelli, partiamo da quella frase del primo articolo di fondo: rivolta e sfida. Oggi lei dovrebbe riscriverla. Il regime corrotto c'è forse più di allora... C'è ancora. Ma la rivolta non era tanto contro la corruzione e la partitocrazia, che erano senza dubbio un grosso male, ma che non erano il male più letale. In quel momento era proprio la società che si disfaceva, le condizioni della scuola, la predicazione del nulla, insomma la contestazione globale, l'ubriacatura degli Anni Settanta, che fu l'ubriacatura del terrorismo, e quella acquiescenza di una certa borghesia, salottiera, radicalchic, che amoreggiava con queste cose, che aveva le smanie maotsetunghiste, che poi parlavano tutti di cose che non sapevano. La corruzione dei partiti invece è quasi immanente. La partitocrazia è destinata a durare almeno finché non si riforma la legge elettorale. Ma questa è la battaglia che noi cerchiamo di fare oggi. Ma gli Anni Settanta non hanno anche prodotto qualcosa di positivo nella società italiana? No. Non vedo fatti positivi nel lascito degli anni di piombo. Vorrei sapere veramente quali. Quando dicono per esempio il divorzio. Ma il divorzio c'era già prima. Quelle sono conquiste sociali. C'era bisogno dei pistoleros per il divorzio? Ma andiamo! Però in uno dei suoi fondi, «Todos Caballeros», lei sembra favorevole all'eurocomunismo. Scrive che avrebbe potuto firmare il documento di Berlinguer e Carrillo sull'eurocomunismo. Io? No. Vabbè, a un certo momento il comunismo, forse presentendo il crollo, ha voluto darsi una vernice democratica. Son convinto che Berlinguer era in buona fede: io ci credo allo strappo di Berlinguer. Ma che io diventi favorevole a un eurocomunismo, questo proprio non è possibile. Nella sinistra lei non vedeva alcuna tensione positiva? No. Io vedevo solo un'abilità manovriera per farsi una cosmesi. Era una costante dei comunisti, la loro capacità di camuffarsi. Però lei difendeva Pannella. Sì. A Pannella dobbiamo veramente due cose, malgrado le sue mattane. Effettivamente riuscì a impedire a una certa aliquota di giovani di finire in braccio al terrorismo, cioè gli dette un'altra bandiera. E alcune battaglie sue furono sacrosante, come quella del divorzio che appoggiammo. Poi verso Pannella io ho una certa simpatia, dovuta al mio vecchio fondo anarchico, libertario, che ritrovo in lui. E' una simpatia genetica. Ritrovo in lui quello che io sono stato a vent'anni. E' vero, come lei scrìveva, che gli «eroi» delle Br frequentavano i salotti della buona borghesia milanese? Eh sì. E come no? Questa roba qui non l'ha vissuta anche lei? Ma che fine ha fatto quella borghesia, che fine hanno fatto quei salotti buoni? Le sue battaglie contro la Crespi o contro la Cederna sono cosa passata? Sono cambiati loro, oppure è cambiato lei? Vabbè, con la Camilla poi siamo ridiventati amici. Con la Crespi no, mai. Ma non ho più rancori, non ho più animosità. Però è un mondo che disprezzo un po', perché è un mondo di pecore che seguono sempre il filo del vento, santoiddio, sono proprio personcine, personcine inconsistenti, pronte ad andare con chiunque. E poi sempre per salvare i propri interessi, non è che abbiano delle idealità, no? Oggi è cambiato il vento, quindi sono cambiati anche loro. Ma non è che sia cambiato il mio giudizio. Quel mondo lì io non lo amo. Però i salotti si danno da fare anche nella campagna referendaria che lei appoggia. I salotti non contano più nulla. Grazie a Dio. No, questa battaglia è un'altra cosa, qui si tratta di salvare veramente la democrazia italiana. Questo sistema è decotto, è marcio. Lei non ha mai avuto simpatia per le Leghe, neanche all'inizio? No, perché è il disfacimento dell'Italia. Io appartengo a una tradizione risorgimentale. Intendiamoci bene, del Risorgimento vedo tutte le lacune, non sono un agiografo, so benissimo che era una cosa modesta piena di magagne. Ma è l'unica cosa buona che l'Italia ha fatto come nazione negli ultimi secoli. Dobbiamo disfarla? Poco dopo la sua uscita, il «Giornale» fece un'inchiesta sulla crisi di Milano. E oggi, è crisi continua? La crisi rimane e si riflette nell'amministrazione cittadina. L'amministrazione era sempre stata un autentico specchio. Fino a Bucalossi il Comune di Milano era retto da specchiati galantuomini, che finivano tutti poveri, in miseria, finivano alla Baggina. Gente davvero di una correttezza esemplare. Poi sono venuti gli Aniasi e compagni e guardi qui dove siamo arrivati: siamo arrivati a Chiesa. Ha fatto i nomi di Aniasi e Chiesa. Oggi lei ce l'ha con il partito socialista? Non vorrei apparire un provocatore. Si dà il caso che siano i nomi di due socialisti: sarà solo un caso casuale? Intendiamoci: Milano ha sempre avuto un'amministrazione socialista. Come mai il socialismo si è inquinato? E' colpa del socialismo o è colpa di una società che riesce a infettare anche i socialisti? Io questo non lo so. Lei comunque stimava Craxi. Sì. In Craxi uomo di governo io ci ho creduto. Un certo piglio, un certo decisionismo lo ha avuto, ha compiuto dei gesti. Ma il Cra¬ xi capopartito non mi piace più. Anche qui: fino a che punto è stato lui l'inquinatore e fino a che punto è stato inquinato? Non lo so. Certo l'inquinamento c'è. Al tempo del sequestro di Moro lei scrisse che era come il delitto Matteotti.. Lo conferma? Mi pare di averlo scritto relativamente alle responsabilità dei comunisti. Io dissi che non era responsabilità dei comunisti esattamente come il delitto Matteotti non era stato responsabilità di Mussolini. Ma erano schegge impazzite del comunismo. Che poi i comunisti ripudiarono. E furono loro a non voler la trattativa, con mia grande gioia. Come non la volle La Malfa. Io temevo che si andasse alla trattativa, perché i de il senso dello Stato non ce l'hanno. Invece la rifiutarono. Non credo per senso dello Stato, non li vedo un Piccoli o un Rumor che in nome dello Stato dicono: non si tratta. Fu per ragioni di bottega, tra di loro. Ricordo che Cossiga era un uomo distrutto. Insomma è stato un gran bene che non abbiano trattato, anche se questo è costato la vita a Moro. Parliamo di giornalismo: Bocca ha detto di lei che è stato un maestro di chiarezza. Ricordo come raccontò la rivolta di Budapest nel '56: Questa è la storia della rivolta di Budapest. Ve la racconto come l'ho vista io. Oggi non si scrìve più così. Che cosa pensa del giornalismo di oggi? Il giornalismo oggi deve fare i conti con un avversario che io non conoscevo: la televisione. Prendiamo, per esempio, la guerra di Finlandia: primo, davo delle notizie che la televisione non anticipava; secondo, potevo dare dei colori, dei contorni che la televisione non insidiava. Però io ho proprio la mania di farmi capire. Trovo che non farsi capire è un fatto di estrema maleducazione. Io misuro i miei passi sulla gamba dei lettori. Che poi gli addetti ai lavori mi considerino banale o grossolano, non me ne importa assolutamente niente. Non sono loro il mio pubblico. Io parlo al ragionier Brambilla. Quindi lei non ama il giornalismo soggettivo, <<dal di dentro», facciamo il caso più famoso: Oriana Fallaci? Preferisco non esprimermi. Levi la Fallaci, ma il giornalismo sensazionalistico è quello che io odio e credo sia il peggior servizio che si possa rendere a questo mestiere. Può nascere ancora un cronista come Egisto Corradi? Eeeh, ha fatto il nome. Ha fatto il nome! Egisto Corradi è un caso limite. Lui avrebbe dovuto fare il maestro di tutti i cronisti. Oddio, io credo che fra i giornalisti d'oggi ce ne siano di bravi; non con quello scrupolo quasi patologico che lui aveva, però di cronisti seri credo che ce ne siano anche oggi, certo sono sempre tentati dalla droga, dal drogare la notizia. Perché i rotocalchi hanno condotto su questa strada e perché bisogna battere in qualche modo la televisione. Allora nasce questo romanzare. Secondo me un pessimo giornalismo, che discredita il mestiere. Ma intendiamoci, io sono vecchio. Come spiega che un piccolo giornale, «il manifesto», agli antipodi rispetto a lei, sia diventato una scuola di giornalismo? Io sono agli antipodi del manifesto, ma un antipodo molto rispettoso. Io amo il manifesto, lo guardo sempre. Quello è un tipo di giornalismo speciale, di battaglia, di polemica. Son dei matti, che hanno in mano una causa che io considero persa, ma la difendono in maniera magnifica. Sono un piccolo esercito esemplare, un gruppo di persone che mettono al servizio di idee folli un'intelligenza e una pulizia straordinarie. Rileggendo i suoi articoli di fondo, si vede che spesso lei ci ha indovinato: ad esempio, è stato uno dei primi a sostenere l'innocenza di Enzo Tortora. Le è capitato anche di sbagliare di grosso? Ne ho sbagliate tante di predizioni. Perbacco! Guai a non fare errori. Quando uscii da Budapest e per molti anni ancora, continuai a pensare che Kadar era in fondo un galantuomo che cercava di salvare il salvabile. Su Kadar mi sono sbagliato. Sono errori inevitabili. Bisogna avere il coraggio di dire: caro lettore ti avevo dato un giudizio sbagliato. Operazione che a molti giornalisti ripugna. E questa è una cosa che mi sbalordisce. La fiducia non può essere nell'infallibilità del giornalista. Il giornalista è fallace anche lui, si capisce. Fallace, non Fallaci, sia chiaro. Alberto Papuzzi 77 Comune: «Era uno specchio, e ora...» Pannella: «Impedì che giovani finissero in braccio al terrorismo» IradicaUchic «Tutte pecore» Un'immagine emblematica di Milano Qui sotto: Montanelli. A sinistra: Camilla Cederna A destra: Marco Pannella e Giulia Maria Crespi