DIEN BIEN PHU Rambo non c'era

DIEN BIEN PHU Rambo non c'era Emozioni e polemiche in Francia per il film sulla disfatta in Indocina. Un giornalista fra i legionari, 38 anni fa DIEN BIEN PHU Rambo non c'era NIZZA dal nostro inviato Ero in Indocina trentotto anni fa, in quella primavera che vide la caduta di Dien Bien Phu. Stavo al confine tra l'Annam e il Tonchino, nelle file del 3/2 Rei, Troisième Bataillon du Second Régiment Etranger d'Infanterie, legionario matricola 100915. M'ero arruolato nel settembre 1953, proprio in una caserma di Nizza. Presentando un documento falsificato, per via dei miei sedici anni che dovevano apparire almeno diciotto se volevo entrare nella Legione straniera. E già che c'ero, avevo cambiato identità. Su un mio tesserino ero riuscito a modificare nome e cognome, pressoché capovolgendo quelli veri. Ero diventato Gilberto Franci grazie a una gomma e a un trattino di matita copiativa. Ecco perché l'altra sera, seduto nell'affollata platea del Cinema Pathé, immaginavo d'essere tra gli spettatori più interessati e motivati. Immaginavo mi fosse quasi dovuto un biglietto d'ingresso in omaggio, visto che sullo schermo passava il film Dien Bien Phu, del regista alsaziano Pierre Schoendoerffer. Alla parola fine, accese le luci in sala, avevo buttato l'occhio sugli spettatori che uscivano. In maggioranza cittadini di mezza età, melanconici, più d'uno forse reduce della Legione. Erano tutti apparentemente scossi. Avevano seguito lo spettacolo nel silenzio più assoluto. Non era mai capitato prima che un film sull'Indocina per due ore facesse velo alla «grandeur» nazionale raccontando nei dettagli con crudezza, efficacia ed emozionante sincerità una delle più grandi sconfitte militari subite dalla Francia in questo secolo: quasi seimila morti in una battaglia durata cinquantasei giorni dal 13 marzo al 7 maggio 1954 e più di novemila prigionieri in gran parte feriti. Cinquemila di quei prigionieri non sono più tornati dai campi di prigionia dei Vietminh. Non stupisce che il film stia furoreggiando da Lilla a Parigi, da Brest a Marsiglia. Hanno contribuito al suo successo due recenti, lunghi documentari televisivi e un dibattito nella popolare trasmissione L'histoire en direct, oltre a un florilegio di articoli, recensioni e saggi su rotocalchi e quotidiani. Anche i più giovani francesi, quelli che nel 1954 non erano nati, si accostano incuriositi al tema. Lamentano che nei loro libri di scuola poco o niente si racconti della guerra d'Indocina. E poco o niente della guerra d'Algeria, il cui vero inizio seguì d'un anno circa la caduta di Dien Bien Phu. Così sta diventando propedeutico agli approfondimenti il film di Schoendoerffer. Come se si trattasse di un innesco destinato a far esplodere sopite polemiche d'altri tempi, a far rivisitare criticamente una pa- gina di storia patria in qualche modo rimossa perché umiliante, seppure eroica. Il regista possiede tutti i titoli per essere preso sul serio. Venticinquenne nel 1954, era cineoperatore dell'esercito francese quando il 18 marzo fu paracadutato nella piazzafortedi Dien Bien Phu, ormai stretta d'assedio da 45 mila combattenti dell'armata comunista nordvietnamita e 50 mila civili in loro appoggio, soprattutto scavatori di cunicoli e addetti ai trasporti di munizioni e vettovaglie. Era stato fatto prigioniero il 7 maggio alla caduta del campo trincerato. Aveva tentato l'evasione durante la marcia verso la prigionia. Acciuffato e duramente punito, aveva salvato comunque la ghirba. Ed era stato restituito ai francesi nell'autunno di quell'anno, senza più nemmeno un metro di pellico- la girata in tasca. Ma _con la mente gremita La pdi ricordi ìncancellabi- * li, che sono lievitati per decenni. Ovvero fino all'altr'anno, quando il regista è potuto ritornare in Vietnam per girare il suo film. Coppola con Apocalypse Now e Oliver Stone con Platoon, spettacolari nel solco enfatico, granguignolesco, a volte masochistico di Hollywood, sono lontanissimi dal linguaggio cinematografico di Schoendoerffer. Per aver pagato di persona, per essere stato segnato nell'animo da quella terribile avventura, l'autore di Dien Bien Phu non poteva permettersi d'essere insincero in ossequio alla cassetta. Così il suo film è di un rigore estremo nella descrizione della guerrastavNoia po di trince ì e delle sue crudeltà, che pure sono mostrate come atrocemente modeste: sia che si rappresentino cadaveri nel fango o soldati orribilmente mutilati, scoppi devastanti di mine e granate o lunghi soffi di lanciafiamme a snidare il nemico dalle trincee, infermerie putride scavate sotto terra, ri- colme di legionari gementi o chirurghi unti e bisunti che volano via d'acchito mentre suturano moncherini, catapultati lontano assieme ai feriti per lo spostamento d'aria d'un grosso proiettile caduto lì. Nonostante tutto, Rambo non ha mai abitato a Dien Bien Phu, sembra voler dire Schoendoerffer. Se c'è una scivolata d'ala nel film, sta nei brani di contrappunto alla guerra, che il regista risolve con disarmante inge¬ nuità. Invece sono deliberatamente taciuti il prologo e l'epilogo dell'ultima campagna francese in Indocina: chi vuole, vada a cercarsi i documenti scritti, è il sottinteso invito del regista. A cominciare dal rifiuto di De Gaulle di incontrare Ho Chi Minh nel 1945 per una soluzione negoziata dopo la disfatta e la ritirata dei giapponesi dal territorio. E fino alle supponenze dei capi militari, ai presuntuosi errori di valutazione sulle capacità belliche dei nordvietnamiti, soprattutto dopo la fine della guerra in Corea e il decuplicato apporto in mezzi, istruttori e consiglieri della Cina di Mao a fianco del generale Giap, comandante in capo dei Vietminh. Battaglia fra le più importanti del ventesimo secolo, che suggellò non soltanto per i francesi la fine del colonialismo classico, Dien Bien Phu segnò la virata di un'epoca. Soltanto gli americani non impararono la lezione: agli inizi degli Anni Sessanta cominciò John Kennedy a infognarsi in Indocina, poco prima d'essere assassinato a Dallas. Fuori da Dien Bien Phu, noi legionari nel febbraio del 1954 non potevamo possedere il sen¬ no di poi, né la percezione della catastrofe imminente. Il mio battaglione vagolava tra Dong Hoi e Vinh, non lontano dalla «Route nationale numero 1» che correva a pochi chilometri dal Mar Cinese Meridionale. Combattevamo senza infamia e senza lode una guerra di piccolo cabotaggio: quotidiane «aperture di strada», uno ossia rimozione delle mine che i vietminh in apiazzavano ogni notte lungo le poche vie carrozzabili; controlli e Sea"rdeS di pattS8deSnCatenaAn- peggnamitica; scontri a fuoco di routine, con non troppi morti e feriti di parte nostra; un solo corpo a corpo in sei mesi, per alleggerire un'improvvisa e imprevista pressione di Vietminh contro la nostra compagnia-comando. Della piazzaforte assediata, lontana da noi almeno 500 chilometri in linea d'aria, conoscevamo il nome dal suono piacevole, Dien Bien Phu, che in lingua vietnamita significa «Sede della Prefettura di Frontiera». Sapevamo che il 70 per cento della guarnigione era costituita da legionari, nordafricani e vietnamiti dell'ex imperatore Bao Dai. Che la comandava Christien De Castries, un colonnello molto coraggioso ma troppo snob per i nostri gusti, già campione mondiale d'equitazione. Che il generale René Cogny, comandante di nel so- tutte le truppe francesi Nord, era curiosamente prannominato «Coco la Sirène». E ci piaceva l'idea che i quarantanove posti avanzati, a difesa della guarnigione al confine tra Tonchino e Laos, scavati sulle colline attorno alla grande valle di Dien Bien Phu, avessero leggiadri nomi femminili: Beatrice, Huguette, Claudine, Gabrielle, Dominique, Eliane, Isabelle... Non immaginavamo quale crogiolo di cadaveri sarebbero presto diventati quei piccoli fortini. C'era un motivo perché noi legionari del Troisième Bataillon ci interessassimo di Dien Bien Phu, parlandone con gli ufficiali e captando le informazioni delle radio militari di Hanoi. Fin dal gennaio 1954 correva voce che presto saremmo stati mandati lassù a rinforzo. E anche dopo il 13 marzo giorno in cui la guarnigione era ormai completamente circondata dagli uomini di Giap e col piccolo aeroporto fuori uso continuarono insistenti le indiscrezioni di una nostra possibile partenza. Avvalorate da un peregrino corso accelerato di paracadutismo al quale molti di noi furono chiamati. Corso sospeso soltanto sul finire d'aprile, perché ormai Dien Bien Phu era allo stremo: sarebbe capitolata alle 17,40 del 7 maggio e la fine della guerra sarebbe stata sancita a Ginevra il 21 luglio, in grande misura alle condizioni di Ho Chi Minh. Eppure, in quei giorni primaverili di piogge estenuanti, si sarebbe partiti lo stesso. Il mio battaglione era composto al 40 per cento da tedeschi, e via via da slavi, italiani e spagnoli, belgi, fino ai rari svizzeri, inglesi, olandesi e scandinavi, e da un solo americano del Wisconsin. Nel complesso brava gente, con almeno un pizzico di spirito d'avventura, soltanto per luogo comune tacciata di propensioni delinquenziali. Ma sicuramente uomini instabili, che in una certa fase dell'esistenza avevano deciso di rifiutare piccoli e grandi compromessi della vita civile ò di non pagare qualche debituccio con la giustizia. Tuttavia gli italiani che ricevevano posta da casa si scambiavano le novità borghesi: in patria era comparsa la televisione, si dipanava il giallo d'una certa Wilma Montesi trovata morta su una spiaggia l'anno prima, e la benzina costava 138 lire il litro. C'era assai poco tempo e voglia, in verità, per le nostalgie e i pettegolezzi. Oltretutto, quel corso di artigianale paracadutismo infastidiva più delle pallottole. Si trattava di salire su una torretta, attaccarsi a un manubrio che con carrucola scorreva lungo un cavo d'acciaio in pendenza, fissato a un grosso palo molti metri più sotto, piantato accanto a una vasca di sabbia. Come fosse una specie di trolley, appesi al manubrio si filava a 30 chilometri l'ora e il salto finale nella sabbia, da cinque metri, era d'obbligo se non ci si voleva fracassare contro il palo. Su Dien Bien Phu, nei cinquantasei giorni di assedio finale, furono lanciati 4291 paracadutisti veri e 680 volontari «non qualificati», fra cui molti esperti del trolley. Nessuno del mio battaglione fu di quella partita, per buona o cattiva sorte. Franco Giliberto _, j. La piaZZUfOrte OSSealdta * J stava per cedere a Giap. Noi ci preparavamo a portarle soccorso no spericolato corso tu n attesa della partenza 1 di paracadutismo: eggÌO delle pOthttok Soldati in trincea sotto la pioggia in una scena di «Dien Bien Phu». A destra, il regista Pierre Schoendoerffer: all'epoca era cineoperatore dell'esercito francese A fianco, Franco Giliberto a 16 anni. Sotto il titolo, a sinistra, la Compagnia Comando festeggia la fine della guerra nel luglio 1954; a destra, un idolo vietnamita col fucile Garand in grembo