I bambini in ambulatorio di Marina Verna

I bambini in ambulatorio PEDIATRIA I bambini in ambulatorio Com'è cambiato il concetto di salute e malattia NEGLI Anni 60, ogni mille nati vivi ne morivano 42. Alla fine degli Anni 80, la percentuale era scesa a 9,5. Contemporaneamente, le nascite calavano, le malattie infettive si ridimensionavano, sparivano le patologie da carenza alimentare e spuntavano quelle da sopravvivenza estrema - oggi l'I-2 per cento dei neonati presenta danni permanenti e il 10-12 rivela, al momento di iniziare la scuola, una disabilità di vario grado. I bambini sono cambiati. E i pediatri? Al congresso «Pediatria 92: nuovi orientamenti», organizzato nei giorni scorsi a Genova dall'Istituto Gaslini, sono apparsi disorientati e a volte perplessi. Il loro numero è in calo: in quest'anno accademico, le scuole di specializzazione ne hanno accolti soltanto 253. D'altronde, che i medici siano troppi e vadano ridimensionati lo dicono le statistiche: in Italia ce n'è uno ogni 225 individui. L'Organizzazione Mondiale della Sanità ne consiglia uno ogni 600 persone perché, al di sotto di questa cifra, crescono le malattie iatrogene, cioè indotte dalle cure mediche. Non è ancora ben chiaro chi verrà sacrificato, ma qualche tendenza è già evidente: l'occhio di riguardo è per anestesisti e rianimatori, radiologi, radioterapisti oncologi e medici nucleari. II pediatra si trova di fronte anche un nuovo concetto di salute: non più mera assenza di malattie, come voleva la definizione classica, ma una condizione di benessere psicofisico che viene definita come «capa¬ cità di star bene con gli altri». Per questo oggi l'enfasi è sui disturbi del comportamento, i problemi dello sviluppo, gli handicap minori. All'estremo opposto, ci sono malattie fino a poco fa sconosciute, come gli errori congeniti del metabolismo o le immunopatologie: difficili da diagnosticare e soprattutto da trattare. Perché in pediatria, come in tutta la medicina, è sempre più evidente l'immensa distanza che corre tra la capacità di diagnosi e quella di cura. Per una dozzina di malattie ereditarie - tra le quali la sindrome di Down, la talassemia e la fibrosi cistica - si conosce la collocazione del gene malfunzionante e si fantastica di terapia genica. Il traguardo però è lontanissimo. Il cosiddetto «gene targeting» non viene neanche preso in considerazione: prendere di mira un singolo gene da sostituire, su un patrimonio di centomila, è veramente cercare l'ago nel pagliaio. Più accessibile della terapia genica sostituiva sembra essere quella additiva: si tratta, in questo caso, di introdurre un gene che non c'è. Per farlo, si utilizzano dei vettori retrovirali, cioè dei virus inattivati che però non hanno perduto la loro capacità di penetrare nel cuore della cellula. Raggiunto questo primo bersaglio, resta però da fare il lavoro più difficile, che è quello di sistemarsi in un punto del cromosoma che, se non è proprio quello esatto, non dev'essere però neppure del tutto sbagliato. Il problema, per il momento, non è risolto: esiste effettivamente il pericolo che il nuovo gene si integri là dove ce n'è uno perfettamente funzionante, riuscendo a fare due danni in un colpo solo. Senza contare la possibilità, tutt'altro che remota, di attivare qualche oncogene, dando inizio alla formazione di un tumore. Un altro problema è il tipo di cellula su cui si può tentare questa operazione. Ragioni morali oggi vietano di intervenire su quelle germinali. Resta però il fatto che solo una cellula che si sta dividendo è in grado di effettuare quel cambiamento che il vettore le suggerisce. Sfortunatamente sono sempre pochissime le cellule in quella fase. Tutte queste incognite spiegano perché, nonostante il relativo successo degli esperimenti in vitro (20 per cento), la terapia genica sia stata applicata soltanto due volte, su due ragazzini americani colpiti da una rarissima malattia ereditaria, l'adenosina deaminasi, nella quale manca un gene che codifica per un certo enzima. Dal punto di vista teorico, si tratta del caso più semplice: un unico gene e un'addizione, anziché una sostituzione. A distanza di un anno, i ragazzini stanno decisamente meglio, ma non per questo la terapia si può giudicare un successo. Innanzitutto il nuovo gene tende a inattivarsi, per»cui è necessario intervenire ogni mese con una infusione di cellule (linfociti T) corrette. Inoltre la terapia farmacologica non è stata sospesa del tutto. A chi il merito del miglioramento? Marina Verna

Luoghi citati: Genova, Italia