Adelchi: che colpo il coro del Nabucco di Masolino D'amico

Adelchi: che colpo il coro del Nabucco In scena all'Argentina l'opera che provocò la grave polemica fra il Teatro di Roma e Carmelo Bene Adelchi: che colpo il coro del Nabucco Funziona l'allestimento di Tiezzi, il clou eia morte di Ermengarda Arnoldo Foà incarna un Desiderio con barba e capelli alla Garibaldi ROMA, Chi affronta il compito di mettere in scena «Adelchi» deve prendere decisioni molto drastiche, perché il capolavoro del nostro teatro ottocentesco è intrattabile, vedi non solo le dichiarazioni del suo autore Alessandro Manzoni, che ribadì di non averlo mai destinato alla recitazione, ma la sua stessa scarsa fortuna teatrale: una sola edizione di grande impegno negli ultimi 50 anni, quella con cui Vittorio Gassman inaugurò (e concluse) le attività del suo Teatro Popolare Italiano nel 1960. Si parla di allestimenti corali, dinamici, con più interpreti e con momenti spettacolari. Presentando all'Argentina il suo, affidato a Federico Tiezzi, il Teatro di Roma a proposito del «teatro di poesia» prende le distanze dagli «stupidi - o i furbi - che, abusando della formula, ritengono che basti mettere qualcuno sulla scena davanti a un leggio, a recitar versi, per porla in pratica»; e sarà difficile non sentire qui un'allusione a Carmelo Bene, a quanto pare entrato in contrasto con l'Ente proprio a causa di un «Adelchi» che proponeva di ri¬ solvere a monologo, magari sostenuto dall'uso dei microfoni. «Adelchi» è «teatro di poesia» in quanto il suo dettato appare almeno in gran parte ancora vivo e affascinante, e a tratti, sublime, mentre l'azione benché shakespearianamente liberata dai vincoli delle notorie unità, e quindi spaziante nei luoghi e nel tempo, è priva di tensione narrativa, e neppure aiutata, perlomeno a beneficio di quel pubblico popolare al quale l'autore voleva rivolgersi, dall'uso di qualche cliché. Escluso il puro Adelchi, idealista privo di un contesto dove mettere in pratica le sue aspirazioni, non ci sono nemmeno i buoni e i cattivi. I Longobardi, dal cui punto di vista ci mettiamo, sono oppressori che hanno usurpato le terre della Chiesa; i Franchi chiamati dal Papa a scacciarli sono peraltro poco simpatici anche loro, con quel Carlo che ha ripudiato la dolce Ermengarda. I conflitti si svolgono sopra la testa di un popolo- calpestato e abbrutito, che al massimo è riuscito a esprimere in frate Martino uh collaboratore dei nuovi padroni, nella speranza che si rivelino più malleabili dei vecchi. Non meraviglia che Verdi, il quale aveva bisogno di contrasti netti, violenti, non abbia mai musicato questo testo. Per rendere appassionante il quale Tiezzi è invece ricorso risolutamente proprio alla tradizione del melodramma, vestendone i personaggi come militari e borghesi dell'epoca in cui fu scritto, incoraggiando una gestualità ampia da teatro d'opera, e sottolineandone i momenti con dosi generose di irresistibili melodie di Rossini, Bellini e del predetto Verdi; l'avvento del coro del «Nabucco» in occasione del finale della prima parte, e dei ringraziamenti al termine, è apparso in particolare un colpo basso, paragonabile a mia memoria soltanto al Paternoster che Diego Fabbri mise in bocca a Rina Morelli in chiusura di «Figli d'arte». In realtà, si capisce, non ha senso far passare i Longobardi come soldati di Carlo Alberto sconfitti a Custoza, o come carbonari che stringono patti segreti; né si vede giustificazione logica al fatto che il coro «Dagli atri muschosi», quello dove si parla del destino del popolo indigeno escluso dalla Storia, sia affidato a Desiderio, ossia al diretto responsabile di quella tirannide, un Desiderio per ulteriore confusione incarnato da un Arnoldo Foà ironico, con barba e capelli alla Garibaldi. Però, attenzione, sto parlando di senso logico; che teatralmente la soluzione di Tiezzi funziona. Abbiamo una serie di quadri plastici gradevolmente reminiscenti della pittura d'epoca, da Hayez a Fattori - ottimo lavoro della costumista Giovanna Buzzi - e folate di nobili endecasillabi, pronunciati con convinzione e talvolta con maestria; un'opera ottocentesca, con azione statica o irrilevante, riscattata da grandi arie. Il clou è la morte di Ermengarda, una Patrizia Zappa Mulas, che riesce a far coesistere la dizione con una impeccabile agonia da Actors Studio, in una corsia di ospedale che si spalanca su una visione di disfatta militare per consentire al di lei commosso fratello Adelchi - Sandro Lombardi, pallido e assorto come un santino dell'oleografia risorgimentale - di declamare pensosamente i 66 meravigliosi settenari che cominciano col famoso accusativo alla greca. Meno trascinante di questa, e del surricordato pezzo di Foà, la terza grande occasione della serata, il racconto del diacono Martino detto poco memorabilmente da Aurelio Pierucci. In complesso però felice e, direi, addirittura sorpresa partecipazione del pubblico; e grandi consensi. Masolino d'Amico Arnoldo Foà incarna con ironia il personaggio di re Desiderio

Luoghi citati: Argentina, Roma