L'ultima fuga di Emily Dickinson

L'ultima fuga di Emily Dickinson Così morì la «poetessa della notte»: la tesi dello scrittore Walsh fa discutere l'America L'ultima fuga di Emily Dickinson Due amori infelici, una vita da reclusa. Poi si uccise EMILY Dickinson, la magnifica, solare «poetessa della notte» che visse reclusa in una stanza nella casa di famiglia a Amherst, nel New England, non sarebbe morta per cause naturali, ma si sarebbe uccisa. A questa sorprendente deduzione è arrivato lo scrittore John Evangelist Walsh, che intorno alla sua ipotesi ha costruito This brief tragedy, un saggio pubblicato dalla Grove Weidenfeld, che sta facendo discutere negli Stati Uniti. E' bene precisare subito che John Walsh non è un dilettante in cerca di rapida fama, ma un romanziere e saggista con dieci libri al suo attivo, tra cui due noti studi dedicati a Edgar Allan Poe e al poeta Robert Frost. Pur confermando che la grande poetessa americana dell'800, intelligente, ironica, sensuale, soffriva di una grave malattia dei reni conosciuta come morbo di Bright, Walsh ritiene che fosse soprattutto afflitta da una terri- bile forma di depressione, causata dai dispiaceri che la colpirono durante gli ultimi due anni della sua vita. L'amore infelice per il reverendo Charles Wadsworth prima, e poi per il giudice Otis Phillips Lord, l'aveva portata a chiudersi vergine a trent'anni nella sua camera adolescenziale, rifiutando qualsiasi rapporto che non fosse epistolare con il mondo maschi¬ le, e con il mondo esterno in generale. «Nessuno di quelli che vanno a trovare sua madre o sua sorella è mai riuscito a vederla; solo ai bambini, di tanto in tanto, e uno alla volta, dà il permesso di entrare nella sua stanza... Veste unicamente di bianco e dicono che abbia un cervello come un diamante» scriveva la vicina di casa Mabel Loomis Todd. Ma questo non impediva alla poe¬ tessa di apparire fisicamente almeno nelle sue bellissime lettere. «Sono piccola, come lo Scricciolo, e ho i capelli di colore deciso, come la lappa castana - e gli occhi, come lo Sherry avanzato nel bicchiere degli Ospiti», scriveva all'amico Thomas Higginson che le rispondeva: «...se potessi vederla solo una volta, sapere con certezza che lei esiste davvero...». Sarebbe stato esau¬ dito il giorno che Emily Dickinson gli aprì le porte della sua casa, andandogli incontro con due gigli come una bambina, dicendo: «Questo è il mio biglietto da visita». Walsh ipotizza che questa creatura minuta e fragilissima avrebbe desiderato di mettere fine alla sua vita in seguito alla morte del nipote Gilbert, un bambino di otto anni cui era molto affezionata, e a quella del vecchio amore, il giudice Lord. E che ad aggravare il suo stato di prostrazione avrebbe contribuito lo scandalo causato dalla relazione extraconiugale del fratello Austin Dickinson, con la vicina Mabel Loomis Todd. Le circostanze della sua morte, secondo lo scrittore, sono sospette. Il 13 maggio 1886, dopo avere fatto colazione con la sua famiglia, Emily rimase sola nella sua stanza e svenne. Cadde in coma per sessanta ore, in preda a convulsioni e con una grave difficoltà respiratoria. John Walsh dichiara che questi sintomi non sono «necessariamente» coerenti con la morte per blocco renale, e ipotizza che la poetessa abbia ingerito una dose eccessiva di una medicina prescritta dal suo medico, che conteneva stricnina. «Le intuizioni sono viste di Dio», scriveva Emily Dickinson in quel suo modo adamantino, ma sulle intuizioni che hanno guidato John Walsh nel costruire la sua tesi, è difficile esprimere un giudizio. Solo pochissimi altri studiosi si sono avvicinati a questo argomento: David Porter, secondo il quale la Dickinson avrebbe accarezzato l'idea del suicidio, ma senza portarla fino in fondo, e John Cody che ha ammesso la forte tendenza autodistruttiva della poetessa, ma in una fase precedente della sua vita. Comunque, nessuno oggi sembra possedere elementi per smentire recisamente la tesi di John Walsh. E anche per il New York Times, il «verdetto», su questo punto, è «sospeso». Livia Maniera Emily Dickinson continua a far discutere. Mentre negli Stati Uniti si avanzano nuove tesi sulla sua morte, in Italia esce da Einaudi «Lettere (1845-1886)» una raccolta di 162 scritti della poetessa, curati da Barbara Lanati, che amplia un volume pubblicato dieci anni fa A fianco, la camera della poetessa americana con il letto in cui morì nel maggio 1886 dopo sessanta ore di coma

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