Così Stalin tradì gli ebrei di Sergio Romano

Così Stalin tradì gli ebrei Rapoport: «Peggio di Hitler» Così Stalin tradì gli ebrei T ESSUNO sa con esattez- ■ za quanti ebrei vivano og- ■ gi nella vecchia Unione 1 Sovietica: un milione e ^JL mezzo secondo un censimento del 1989, tre milioni secondo calcoli israeliani. I due milioni a cui fanno riferimento gli studiosi occidentali sono una sorta di compromesso diplomatico fra stime opposte. Alcuni dati parziali sono invece perfettamente noti: sappiamo che dalla metà del 1989 sono arrivati in Israele circa 350 mila ebrei sovietici, che 40 mila hanno già il visto ma esitano prima di risolversi al distacco, che il numero dei partenti è andato diminuendo negli scorsi mesi sino a toccare in gennaio una delle soglie più basse (6237). I fattori che influiscono sulla curva sono molti e contraddittori: l'evoluzione della crisi in Medio Oriente, il rifiuto americano di assistere finanziariamente gli insediamenti ebraici nei Territori Occupati, le condizioni econo-, miche e sociali nelle Repubbliche della vecchia Urss e, sul fondo della scena, ora evanescente come un brutto ricordo, ora netto come un incubo, il «pogrom», la strage, la furia irrazionale delle popolazioni slave che brontola come il tuono e colpisce come il fulmine. Schiacciati fra due patrie, assaliti da ondate alterne di timore e di speranza, gli ebrei della vecchia Urss vivono, come dicono i russi, «sulle valigie». Ma hanno mai vissuto diversamente? Vi è stato forse un momento della storia russa e sovietica in cui essi abbiano goduto di serenità e sicurezza? Al momento della costituzione dello Stato d'Israele otto dei sedici ministri del governo di Ben Gurion erano di origine russa, e in Russia, a Pinsk, era nato nel 1874 il primo presidente della Repubblica, Chaim Weizmann. Molti erano emigrati dopo i pogrom della fine del secolo, altri dopo la rivoluzione, altri ancora dopo la Seconda guerra mondiale. Quale era stato, nella storia russa, il loro peggiore nemico? Nicola II che li detestava? Il procuratore del Sinodo che prospettava per loro tre sorti: la morte, l'emigrazione, la conversione? Lenin, che dissolse le associazioni ebraiche? O Stalin che alla vigilia della morte aveva inscenato il complotto dei «camici bianchi» e stava architettando per loro una «soluzione finale» di proporzioni hitleriane? A queste domande Louis Rapoport, autore di La guerra di Stalin contro gli ebrei (Rizzoli), risponderebbe probabilmente che fra tutti gli antisemiti della storia russo-sovietica il «padre dei popoli» fu il peggiore. Rapoport è convinto che il tarlo dell'odio cominciò a rodere l'anima di Stalin sin dall'adolescenza nel seminario teologico di Tiflis. Quando Lenin gli commissionò uno studio sulla «questione nazionale», il «meraviglioso georgiano» negò che al popolo ebraico potesse riconoscersi carattere nazionale: erano «nazioni» i popoli che avevano lingua e territorio, non quelli che andavano raminghi da un angolo all'altro del pianeta. Quando conobbe il giovane Trockij, l'antipatia fu immediata, razziale, e il dissenso degli anni seguenti crebbe su un terreno seminato dall'odio. Quando divenne commissario alle nazionalità nel primo governo di Lenin dopo la Rivoluzione d'Ottobre, vietò l'insegnamento dell'ebraico, soppresse l'istruzione religiosa, dissolse le associazioni, proclamò che non vi era più in Russia una «questione ebraica». Quando strinse con Hitler il patto dell'agosto 1939 ne approfittò per dargli una mano a sbarazzarsi di una buona parte della popolazione ebraica nelle terre che i due dittatori si spartirono o si strapparono di mano negli anni seguenti. Per la verità fu lui che volle la creazione, nel 1942, di un Gomitato antifascista ebraico e mise alla sua testa un grande attore, Solomon Mickoels, regista di straordinari spettacoli e amatissimo leader di tutte le comunità ebraiche delI'Urss. Ma erano gli anni in cui Stalin, per vincere la guerra, non esitava a sfruttare i sentimenti religiosi e patriottici delle più influenti componenti etniche del Paese. Agli ebrei, in particolare, ricorse nella convinzione che dai loro legami con l'Occidente avrebbe tratto simpatia, denaro, informazioni. Agli inizi del 1948, quando il Gomitato aveva smesso di essergli utile, ordinò che Mikhoels venisse ucciso e l'assassinio mascherato da incidente. Le pagine sul complotto, sulla morte, sui commoventi funerali che si celebrarono nel teatro ebraico di Mosca e sulla cappa di piombo che cominciò a scendere allora, di un millimetro al giorno, sulla testa degli ebrei sovietici, sono fra le più belle del libro. Come quelle sulla colossale macchinazione che Stalin organizzò nell'ultimo anno della sua vita per «liquidare» l'intera comunità ebraica. Additando alcuni medici ebrei all'odio generale e suscitando nell'immaginazione popolare lo spettro di un complotto annidato in tutti gli ospedali dello Stato sovietico, Stalin fece leva sugli stessi sentimenti che l'Ochrana aveva scatenato settantanni prima con i falsi assassini rituali fra le popolazioni ucraine e moldave. Quando morì nel marzo del 1953 mancavano pochi giorni all'inizio di un colossale pogrom di Stato. Questa è la truce storia «elisabettiana» raccontata da Rapoport. Ma lo stesso autore ci ricorda che alla sistematica eliminazione dell'identità ebraica in Urss, molti ebrei dettero un contributo determinante. Ebrei erano Trockij, Kamenev, Zinov'ev, Radek, Litvinov. Ebreo era Jagoda, capo della Gepeu negli anni del grande terrore. Ebrei erano Inzhir, che divenne amministratore industriale di tutto l'Arcipelago Gulag, e Frenkel che co strinse gli schiavi dei Lager a costruire un canale fra il Mar Bianco e il Baltico in cui morirono duecentomila persone. Ebreo era Kaganovic che nel gennaio 1953 preparò per Stalin le «liste di proscrizione». Agli occhi di Rapoport essi furono «apostati». A me sembra che fossero piuttosto il segno più vistoso di una frattura che lacerò per molti anni il movimento ebraico in Europa centro-orientale. Da un lato vi erano i credenti che desideravano l'intimità religiosa e comunitaria dello shtetl, i sionisti che aspiravano alla patria palestinese, i militanti socialisti del Bund che chiedevano il riconoscimento della loro autonomia culturale; dall'altro gli ebrei laici e emancipati che sognavano una società rivoluzionaria in cui tutte le identità nazionali, anche quella ebraica, si sarebbero finalmente dissolte. Fra questi, il bolscevismo reclutò seguaci geniali, spietati, razionalmente fanatici e non meno antisemiti, in molti casi, dei più incalliti nemici del loro popolo. Molti caddero durante le lotte fratricide del partito negli Anni 30, altri furono vittime dei patologici sospetti di Stalin quando la realizzazione di uno Stato sionista nel 1948 suscitò in lui la convinzione che essi fossero tutti, virtualmente, traditori della patria sovietica. Di tutti i pogrom consumati sulla terra russa quello abortito del 1953 fu il peggiore perché uccise una fede in cui molti ebrei avevano riposto ogni loro speranza. Sergio Romano