FELTRINELLI Il traliccio dei rimorsi

FELTRINELLI Il traliccio dei rimorsi Vent'anni fa la tragica morte dell'editore milanese. Le complicità di allora, nel giudizio dei testimoni FELTRINELLI Il traliccio dei rimorsi ROMA vent'anni di distanza dalla tragica fine sul traliccio di Segrete, il nome di Giangiacomo Feltrinelli muove ancora gli animi, nel mondo politico e culturale italiano. E' un motivo di rimorso, un invito all'esame di coscienza in quella che fu la nostra sinistra. E molti, che allora credettero, o finsero di credere alla tesi del complotto, oggi sono pronti a smentirla. Ma c'è anche chi continua a difendere l'immagine del rivoluzionario generoso e altruista, come Camilla Cederna, che aveva iniziato per prima la battaglia nel marzo del 1972. A questa tesi non crede più - ma confessa di non averci creduto troppo neppure allora - Oreste Scalzone, uno fra i dirigenti di Potere Operaio, assai vicino al movimento rivoluzionario a cui l'editore milanese cercava di dare vita. Mentre Montanelli riserba a Giangiacomo giudizi assai duri, nella sua storia degli «anni di piombo», Livio Zanetti ricorda la nascita dei primi dubbi sulla teoria del complotto borghese, man mano che affioravano le notizie sui fatti. E Paolo Portoghesi confessa come fu costretto, in quei giorni, a smentire di aver firmato un manifesto in cui la sinistra aveva cercato di coinvolgere decine di intellettuali, anche a loro insaputa. A rinvenire i resti di Feltrinelli era stato un agricoltore, insospettito dall'inquieto abbaiare del suo cagnolino. I documenti trovati addosso al morto erano intestati a un certo Vincenzo Maggioni. Ma si trattava di carte false. Quel corpo apparteneva a Giangiacomo Feltrinelli, l'editore del Dottor Zivago e del Gattopark do; lliomoche avevafinito i suoi giorni sognandosi nelle vesti di ua,no.vellQ.GheJìue.vara. incaricato di portare anche in Italia i fuochi della lotta armata. Era il 15 marzo del 1972. Feltrinelli, che si era inerpicato su quel traliccio per oscurare Milano con un black-out dimostrativo, aveva pagato a caro prezzo la sua scarsa dimestichezza con esplosivi e timers. L'infervorato soldato dei Gap, Gruppi di azione partigiana, 1'«Osvaldo» che aspirava a dare nuova linfa alla leggenda della «Resistenza rossa» concludeva così, incappando in un fatale incidente sul lavoro, la sua carriera di rivoluzionario di professione. Ma questa semplice ancorché tragica verità sarà riconosciuta come tale solo dopo alcuni anni. Nella plumbea primavera del '72, invece, quel corpo esanime rinvenuto ai piedi di un traliccio della campagna lombarda aveva finito per diventare agli occhi dell'opinione pubblica di sinistra come la vittima sacrificale di una macchinazione di Stato. «Feltrinelli è stato assassinato», si vociferava nelle redazioni dei giornali. «Compagno Feltrinelli sarai vendicato», si rispondeva nei cortei della «sinistra extraparlamentare» che in quell'epoca, con cadenza pressoché quotidiana, calcavano le vie delle principali città italiane. Al Palando di Milano era in corso il XIII congresso del pei, che avrebbe consacrato Enrico Berlinguer segretario. Ma dalla tribuna congressuale, egli indicava tra i nemici principali del partito «l'avventurismo rissoso e inconcludente» di quella sinistra extraparlamentare che proprio l'il marzo aveva.fatto del centro' di Milano il teatro di un sanguinoso esperimento di guerriglia urbana. Mettendo in guardia il pei dalle «azioni provocatorie» architettate a suo danno, Berlinguer fissava così i contorni di un'insuperabile frontiera antropologica tra il partito e i «gruppi avventuristi»: «Noi comunisti non siamo per la società dove tutto sia lecito, dove vige la tesi che ogni istinto deve essere sempre seguito, invece che razionalmente controllato. Certe teorie libertarie sono droghe pseudoculturali nocive quanto le droghe che si vendono e si consumano». Più sbrigativi, come era nel suo temperamento, i toni di Giancarlo Pajetta: i militanti dei «gruppuscoli», così li chiamava dal congresso comunista, non sono altro che «sprovveduti avventurieri» e addirittura «disertori dell'armata proletaria». Si era allora, come oggi, in piena vigilia di un voto. Il ritrovamento del corpo di Feltrinelli fu subito percepito come un colpo basso in campagna elettorale. «Vogliono distrarre l'opinione pubblica dai reali problemi del Paese», denunciavano dall'Unità. Prendeva forma la teoria del complotto, senza che l'ipotesi di un Feltrinelli recatosi di sua volontà al traliccio di Segrete venisse presa nella minima considerazione. Feltrinelli «è stato assassinato e portato sul luogo del- l'attentato», scrisse subito Paese Sera. «Una colossale macchinazione», era il giudizio del Manifesto. «Mostruoso assassinio», titolava il settimanale Abc. Un gruppo di intellettuali milanesi, tra cui Camilla Cederna, l'attuale direttore degli Editori Riuniti Michelangelo Notarianni e lo scienziato Giulio Maccacaro, diramò un comunicato in cui si esprimeva la certezza «che Fel¬ trinelli è stato assassinato da questurini e portato ad arte sul luogo del presunto attentato che non c'è stato». E ancora: «La criminale provocazione, il mostruoso assassinio, sono la risposta della reazione internazionale allo smascheramento della strage di Stato». Alberto Moravia individuava un'altra categoria di «mandanti»: la borghesia. «Il potere della ricchezza - scriveva - era oramai definitivamente contro Feltrinelli»; «lo odiavano come un transfuga». I comunisti oscillavano tra l'abbraccio della teoria del complotto e la presa di distanza dal feltrinellismo. «Il meno che si possa dire è che le spiegazioni che vengono date non sono credibili - tuonava Berlinguer -; pesante è il sospetto di una spaventosa messinscena». Ma l'Unità, diffidente verso l'estremismo dell'editore, parlava esplicitamente di Feltrinelli come di «un tragico simbolo di fallimento» e titolava un profilo biografico dell'uomo scomparso con un tono che suonava come una condanna: «Disperazione individuale». Il 28 marzo, durante i funerali di Feltrinelli, la sinistra extraparlamentare organizza una manifestazione al cimitero Monumentale di Milano. E' il culmine della protesta contro «l'assassinio di Stato». Ma nella sinistra cominciano ad affiorare i dubbi. Leonardo Sciascia commenta la vicenda con la consueta lucidità: «Tutti i dati di incredibilità che vengono indicati a favore della tesi di una morte predisposta come provocazione, possono benissimo essere liquidati ricordando che Feltrinelli era un personaggio incredibile». L'architetto Paolo Portoghesi smentisce pubblicamente di aver aderito all'appello degli intellettuali milanesi a favore della tesi del complotto. «Quei manifesti - ricorda oggi Portoghesi venivano di consuetudine compilati contando sull'adesione automatica di tutti i membri dell'intellighenzia. Talvolta si aveva l'accortezza di telefonare, ma più spesso le firme venivano messe in calce senza neanche avvertire l'interessato. Quella volta volli precisare il mio dissenso: conoscevo bene Feltrinelli e lo sapevo uomo di grande fantasia. Non potevo condividere l'atteggiamento fideistico di chi parlava con certezza di complotto». Sull'Espresso, il settimanale che pure ospita le accuse di Camilla Cederna, si fa strada un convincimento diverso. «Sapevamo come erano andate le cose da un nostro giornalista particolarmente versato nel ramo», dice oggi Livio Zanetti, l'attuale direttore del Gr 1, che allora dirigeva il settimanale di via Po, «e finimmo per ritenere sempre più improbabili tutte le dicerie sul presunto complotto». Ma la rottura del «fronte del complotto» è sancita da un documento del gruppo Potere Operaio in cui si dichiarava apertamente che l'editore si era recato a Segrete per dare concretezza alla sua scelta rivoluzionaria: «Feltrinelli da vivo era un compagno dei Gap, un'organizzazione poUtico-mÙitare che da tempo si è posta il compito di aprire in Italia la lotta armata». Sebbene nel documento si precisasse che «questo compagno, per generosità, ha commesso errori fatali di imprudenza, cadendo così in un'imboscata nemica», la presa di posizione di Potere Operaio suscitò polemiche, e in alcuni casi esplicita ostilità, nella sinistra. Da Parigi, Oreste Scalzone, uno dei dirigenti di Potere Operaio, spiega così il perché: «La vera macchinazione era costitui¬ ta dalla teoria del complotto, una menzogna che rivelava una concezione poliziesca della storia, con tanto di capri espiatori, ricerca di un Nemico assoluto e la politica ridotta a una miserabile trama ideata in chissà quale stanza segreta di chissà quala organizzazione malvagia». E invece? «E invece il "generane" dell'intellighenzia italiana, quei "comunisteggianti" di cui parlava Aron e che oggi sono nel mirino di Cossiga preferirono non dire la verità, occultandola con i fumi di una sciocca teoria della macchinazione». Scalzone, quella «verità» la conosceva: «Vidi Feltrinelli pochi giorni prima della sua morte. A Milano si preparava una manifestazione per l'il marzo per impedire un comizio di Abiurante. Giangiacomo mi disse di avere informazioni attendibili circa un progetto di repressione "pesante" da parte della polizia in vista della manifestazione milanese e mi consigliava di scendere in piazza inserendo nel corteo "gruppi di autodifesa" in grado di sostenere un "più alto" livello di scontro. Per parte mia confessai che l'idea non mi piaceva. Giangiacomo ci restò male e venne confermato nel suo giudizio che noi non fossimo altro che "sinistra parolaia"». «Posso dire con fierezza - continua Scalzone - che noi di Potere Operaio contribuimmo a restituire a "Osvaldo" la sua identità di uomo generoso che, a torto o a ragione, aveva perso la vita sognando di essere un po' Guevara, un po' Pisacane e un po' Pietro Secchia, e perciò ci attirammo l'odio e le sprangate dei seguaci del futuro onorevole Capanna asserragliati alla Statale di Milano. Potevamo dire ancora di più, visto che conoscevamo Vazione simbolica che Giangiacomo voleva compiere sul traliccio di Segrete. Ma sono certo che abbiamo fatto quello che Feltrinelli avrebbe desiderato: essere ricordato come il compagno Osvaldo». A vent'anni di distanza, quelle ferite non sembrano rimarginate. Nella sua ricostruzione dell'Italia degli anni di piombo Indro Montanelli ha riservato a Feltrinelli giudizi ancor oggi duri e sprezzanti. Gli ha risposto Adriano Sofri, a quel tempo leader di Lotta Continua: «Più passa il tempo e più sono affezionato alla memoria di Feltrinelli». Da sempre antagonista del direttore del Giornale, Camilla Cederna dice di non condividere, oggi come allora, quelle che definisce «le montanellerie su Feltrinelli». Dell'editore morto a Segrete la giornalista che fu la principale artefice della teoria della «macchinazione» confessa di avere ancora un ricordo positivo: «Un uomo generoso, altruista, impegnato e onesto. E non voglio sapere altro». E della dinamica della sua morte sul traliccio? «Quella storia non sono mai riuscita a capirla bene», risponde seccamente Camilla Cederna. Un altro scacco, postumo, per quel guerrigliero sfortunato, nome di battaglia «Osvaldo». Pierluigi Battista «Delitto di Stato»: i dubbi di Sciascia, le certezze* dettai FELTRINELLI Il traliccio dei rimorsi Accanto al titolo, il traliccio di Segnate e il corpo di Feltrinelli. In alto l'editore, qui a fianco Montanelli e Sofri. Sopra, Portoghesi, Scalzone e la Cederna