Per Augusto le lacrime del bandito

Per Augusto le lacrime del bandito Nella prigione di De Megni il carceriere implorò i compagni: non fategli male Per Augusto le lacrime del bandito «Non volevo che i miei complici gli tagliassero un orecchio» Il padre del rapito: lo perdono, è un uomo diverso dagli altri PERUGIA DAL NOSTRO INVIATO Parlano sottovoce, sorridono, scherzano fra di loro. Si stringono anche la mano, come due uomini che si rispettano, davanti ai carabinieri che osservano impacciati, a debita distanza, e alle donne sarde con il crocchio e la gonna lunga, che guardano e assentano, appoggiate alle transenne. Dino De Megni e Antonio Staffa stanno da una parte e dall'altra della gabbia con le mani appese alle sbarre, nella grande aula del tribunale. Stanno lì, il padre di Augusto, il piccolo rapito dai banditi, e il suo carceriere, in un quadretto dai toni dolci e un po' disperati. Strano processo, questo, sembra una storia di violenze e soprusi, di crudeltà e di buoni sentimenti, mischiati insieme come in un film. Ieri, il bambino aveva chiesto il permesso di andarci a parlare, con Pino, come lo chiamava nei giorni del sequestro, quando stavano chiusi in una grotta scavata nella terra sulle colline di Volterra, e giocavano a carte o facevano i cruciverba illuminando il giornalino con una pila, e si scambiavano l'unico Tex che qualcuno aveva portato su, un giorno, assieme alla carne in scatola. «Non conviene», gli avevano risposto, meglio di no. Oggi, ci parla il padre, e adesso dice: «Quello è un uomo diverso, non è come gli altri. Non è quasi colpevole, per noi, e non riusciamo proprio a provare odio o rancore per lui. Non è cattivo, me l'aveva detto mio figlio, e quando andai a conoscerlo capii che era vero. La sindrome di Stoccolma non c'entra, mi creda». In fondo, anche i verbali degli interrogatori raccontano questa strana storia di pietà e di dolore, che si eleva nel sopruso. Così, Graziano Delogu, il padrone del podere dove la banda teneva nascosto Augusto De Megni, ha lasciato la sua incredibile testimonianza^agh' atti: «Un giorno notai che Staffa non era del solito umore. Di solito era cordiale, mentre quel giorno era scuro e scontroso. Gliene chiesi la ragio- ne ed egli mi rispose che avevano intenzione di mutilare il ragazzo ma che lui non voleva e che si sarebbe opposto con tutte le sue forze: disse precisamente che sarebbero dovuti passare sul suo cadavere prima di far male al bambino». Pure Delogu, racconta, si dichiarò contrario e Staffa allora lo pregò di aiutarlo: «se ti chiedono di comprare bende o disinfettanti, tu non farlo per nessuna ragione». Continua, Delogu: «Pensavo che fosse il Vittorio (il soprannome di Antonio Talanas) a volere la mutilazione del ragazzo e decisi di affrontarlo quando c'era pure Staffa. Li pregai di non far male al bambino, dissi che sapevo che avrebbero cominciato con un orecchio e poi gli avrebbero tagliato la testa e che poi avremmo finito con l'ammazzarci tra di noi. Mi misi anche a piangere in ginocchio. Con mia grande,sorpresa scoprii che pure Vittorio era d'accordo con noi». Quell'ordine, confessano quasi tutti, veniva dall'alto, dal capo. Ma chi era il capo? Marcello Mele, un altro degli imputati, durante un interrogatorio, riferisce che Sebastiano Mureddu «veniva anche indicato da Staffa e Talanas con il soprannome Subos», che, in sardo, significa il boss. Dino De Megni, però, non sembra del tutto convinto da questa ricostruzione. «C'è qualcosa che manca, come se ci trovassimo di fronte a un corpo senza testa», dice. «C'è qualcuno che non entra nelle carte del processo, la mente, il basista. L'uomo più importante. Qualcuno che doveva conoscerci molto bene». In fondo, è lo stesso sospetto che deve aver avuto persino Augusto De Megni, se è vero quello che avrebbe raccontato a un giudice uno degli imputati, Marcello Mele. Spiega adesso, il padre Dino: «Noi, quella sera, il 3 ottobre, siamo rientrati a casa dall'ingresso secondario.e. i. banditi che ci aspettavano lo sapevano. Ma questo era un particolare che potevano conoscere in pochi, non era un'informazione che poteva aver dato un pastore sardo. E ci sono altri indizi di questo tipo che mi preoccupano. Poi, a me, quella è sembrata una strana banda, sin dall'inizio. Altro che professionisti. Hanno commesso alcuni errori gravi, e banali. Quando entrai in casa posai le chiavi della porta in cucina. Loro mi legarono e se prima d'andar via avessero chiuso la porta con le chiavi, avrei potuto informare la polizia solo il mattino dopo alle 7,30, quando sarebbe venuta la donna delle pulizie. Invece, accostarono appena la porta e potei aprirla per andare a telefonare». Anche Delogu sembra confermare questa impressione, nel suo interrogatorio reso alla magistratura: «Il bambino era calmo, sereno, le mani legate. Giovanni Farina mi disse preoccupato cEe al bambino gli usciya_fuorijl cuore per dire che era spaventato e agitato. Io per la verità -notai che il bambino era o sembrava perfettamente calmo, mentre era proprio Giovanni Farina ad appari¬ re agitato, nervoso, scosso. Pensai fra me e me in che mani mi fossi messo: di quel gruppo proprio io ero quello più calmo e più lucido». Chissà se è tutto vero. Certo è che in questa banda che qualcuno tratteggia così scalcagnata, Antonio Staffa sembra un bandito condannato dal destino. Appena arrestato chiamò il padre di Augusto, volle parlar con lui. La loro amicizia nacque allora. Staffa gli disse che lui era un latitante, che lui in quella grotta sotto terra ci doveva vivere: «Mi portarono tuo figlio e ho diviso quel buco con lui. L'ho trattato come meglio potevo. Anch'io ho un bambino, e ha l'età del tuo. Non lo vedo quasi mai e adesso non lo vedrò per un pezzo. Ti chiedo di pensare alla mia famiglia», gli disse. Dino De Megni ha mantenuto la parola, e ha trovato un lavoro alla moglie di Staffa. Lei ha dovuto rifiutarlo: «Le regole della mala. Il loro codice». Pierangelo Sa pegno Dubbi sulla ricostruzione del sequestro «Traditi da qualcuno che ci conosce bene Noi entrammo da una porta secondaria ma i malviventi erano lì ad aspettarci» A sinistra Augusto De Megni, il papà Dino e il nonno entrano in tribunale. Di fianco Antonio Staffa, il carceriere. L'uomo, secondo i verbali degli interrogatori, difese a lungo il bimbo quando gli altri banditi decisero di tagliargli un orecchio

Luoghi citati: Perugia, Stoccolma, Volterra