Guerrieri stanchi per la CASA BIANCA

Guerrieri stanchi per la CASA BIANCA Protagonisti, strategie, retroscena delle elezioni Usa. E intanto cresce la voglia di non votare Guerrieri stanchi per la CASA BIANCA S NEW YORK EGLI Stati Uniti si alternano al governo due partiti, quello repubblicano, che gli europei definirebbero di centro-destra, e quello democratico, che è sempre stato considerato di centro-sinistra. In passato l'accento era sulla parola «centro». Il resto era colore, sfumatura o (al tempo della guerra fredda) rettorica, cioè scelta di strumenti più o meno aggressivi di comunicazione. C'era la responsabilità del mondo sulle spalle degli Stati Uniti. E questo spiega la linea relativamente cauta e prudente quasi sempre scelta, nella politica interna, in quella internazionale, elezione dopo elezione. Ora il muro è crollato anche dalla parte americana, e si comincia a capire che lo choc non è meno forte che in Europa. Invece di incassare i frutti della vittoria, gli americani sembrano pervasi dal panico. Il Presidente in carica, che è repubblicano, stenta a trovare il sostegno dei repubblicani che lo hanno eletto e che dovrebbero compiacersi della sua guida politica (appena un anno fa ha vinto la Guerra del Golfo). I candidati dell'opposizione, che sono democratici, non sembrano incontrare l'attenzione degli elettori, o almeno non si forma un'opinione compatta.intorno ad alcuno di essi. Piuttosto c'è uh comportamento erratico, casuale. Ora votano per l'uno dei cinque contendenti, ora per l'altro, provocando tante piccole vittorie senza un significato. Contro il Presidente repubblicano si è levato un avversario di destra, molto aggressivo, molto comunicativo, ma privo di idee. Eppure Pat Buchanan, il nemico interno del Presidente degli Stati Uniti, gli porta via, elezione primaria dopo elezione primaria, un terzo dei voti. L'apatia dei democratici Verso i candidati democratici c'è apatia. Votano in pochi, i democratici. Votano solo i bianchi. E benché la discussione divampi soprattutto intorno al malessere economico e alla paura della recessione, e del perdere il posto, votano soprattutto gli abbienti. Quella a cui stiamo assistendo è, in un certo senso, una tempesta in un bicchier d'acqua, tanto pochi sono coloro che vi prendono parte. Per esempio le minoranze americane, che sono le più travolte dal dramma della povertà, o più esposte al pericolo di perdere il poco che hanno, non compaiono. Nel passato il loro voto si era sempre orientato verso il partito democratico. Questa volta nessun nero partecipa alla campagna elettorale, nessun nero appare sui teleschermi. I cinque candidati democratici, molto simili l'uno all'altro politicamente (e nessuno dotato di una personalità memorabile) sembrano i rappresentanti di un piccolo club di bianchi (bianchi e «anglo», cioè senza la presenza di alcun tipo di minoranza) che riflette poco l'America. I loro dibattiti pacati ricordano la vita universitaria molto più che il dramma politico che il Paese sta vivendo in questo momento. Che cosa è successo? La storia di queste elezioni comincia alla Casa Bianca. E' successo che la tensione nervosa - provocata forse dai drammatici cambiamenti del mondo - è esplosa nel cuore del partito di governo, accanto a un Presidente un po' stanco, forse non in perfette condizioni fisiche, che aveva previsto una campagna elettorale di routine, tranquilla. Ora che Pat Buchanan, il suo avversario di destra (anzi di estrema destra), gli sta buttando in aria lo scenario per il quale si era preparato, Bush appare nervoso e incerto. Sembra non sapere o non poter decidere se la strada giusta sia evitare lo scontro o cercarlo, rincarare la dose o astenersi, accettare la zuffa o sfuggirla. Il silenzio di Bush fa mancare una parte dello spettacolo. Gli americani, o almeno i repubblicani, non sanno se hanno di fronte un solo protagonista (Buchanan) o due. Il silenzio del Presidente fa mancare la parte importante del dibattito. Nessuna voce, finora, si è levata a notare il vuoto politico di Buchanan. Gli americani infatti si trovano di fronte a un uomo che si esprime bene, attacca con violenza e non dice niente. O piuttosto, quello che dice è privo di senso, se confrontato, frase per frase, slogan per slogan, con i problemi che tutti conoscono. Pat Buchanan nega che ci siano problemi internazionali. Nega che ci sia una politica internazionale. Nega che Russia, Medio Oriente, Giappone, Israele, Africa o America Latina debbano interessare gli Stati Uniti. Dice che «sono tutte spese da ta¬ gliare». Nega che esista un'economia globale. In un dibattito chiunque potrebbe far notare che la ricchezza americana è fondata sui rapporti internazionali, sullo scambio planetario di prodotti e risorse e - in una certa misura - anche sull'egemonia del Paese, nel resto del mondo. Sono argomenti che in passato si sarebbero chiamati «di destra», interventisti, espansionisti. La destra di Buchanan è un'altra cosa. Lui lancia lo slogan «America first» (America prima) che in realtà vuol dire «(America sola». Non esiste alcun economista, di nessuna sfumatura politica, che gli dia ragione. Buchanan non se ne preoccupa. Lui parla e nessuno contraddice. Il silenzio crea intorno a lui un'impressione di forza che contagia gli incerti e smuove il desiderio di rivalsa di chi ritiene di essere stato «tradito» (se non altro a causa della recessione) da Bush. Buchanan, allora, cambia bruscamente discorso. Passa a durissime requisitorie morali contro la «cultura permissiva», l'arte «oscena» e «l'immaginazione malata» degli artisti. La sinistra americana e i moderati, che partecipano alla campagna elettorale per il partito democratico, non gli rispondono. Dicono: se la veda con Bush. E' lui il suo nemico. George Bush non gli risponde. Forse spera che un argomento così sgradevole scompaia da solo, che il suo nemico si stanchi di guastargli la festa. E di nuovo Pat Buchanan incassa. Gode, almeno per ora, di questo privilegio: nessuno lo contraddice. E lui invade altri spazi, sempre più aggressivo e sfacciato. I giornali ormai hanno fatto l'elenco delle sue battute. Contro i neri, contro gli ebrei, contro le donne, contro i gay, con un linguaggio che era estraneo alla vita pubblica americana da almeno tre decenni. Sul silenzio di Bush, ovvero sulla sua campagna debole, di gentiluomo distratto, non ci sono spiegazioni chiare. Qualcuno suggerisce: aspettate, vedrete. Qualcuno dice che c'è uno squilibrio fra il suo talento internazionale e la capacità di vedere quello che accade all'interno del Paese. Qualcuno arriva a insinuare che «ha perso la voglia». Impossibile dire come si orienteranno alla fine gli elettori repubblicani. Per ora si notano due grandi gruppi. Il primo assicura che starà a casa, se il candidato sarà George Bush. Il secondo si impe¬ gna a non votare se il candidato sarà Pat Buchanan. Tutto questo farebbe dire, a un osservatore lontano, che il gioco è fatto, esattamente come era accaduto ai democratici ai tempi di Carter. La loro divisione aveva portato alla vittoria di Reagan e dei repubblicani conservatori. Questa volta la divisione dei repubblicani dovrebbe portare alla vittoria dei democratici. Ma chi, tra loro? Galleggiano in prima fila i candidati Tsongas e Clinton. Alle spalle ci sono ancora il senatori Harkins e l'ex governatore della California Brown. Fino a ieri c'era anche un altro senatore, Kerrey, che si è ritirato. Chi segue le primarie ha notato che i risultati sembrano piazzati a caso, come' da un compilatore distratto di una schedina. Ora vince l'uno ora l'altro. Tsongas e Clinton si fanno notare di più, l'uno perché è stato ammalato ed è ancora in cura. L'altro perché è «chiacchierato» nei suoi rapporti con le donne e perché ha evitato il servizio militare al tempo del Vietnam. Uno dei due è sospetto fisicamente, l'altro moralmente. Clinton, d'altra parte, appariva l'antagonista del senatore Kerrey, che in guerra ha perso una gamba. L'uno è in discussione per non essere andato in guerra, l'altro lo era perché, essendo stato ferito e decorato, non smetteva mai di parlarne. Come si vede, ciascuno è noto per una caratteristica personale, non sempre buona. Nessuno è ricordato per quello che dice, pensa o promette agli elettori. Presentano programmi generici, in cui è difficile distinguere le voci, anche se Tsongas sembra puntare di più sul risanamento delle imprese, e Clinton sembra credere che tutto dipenda dal benessere individuale dei cittadini. Tacciono anche gli esperti Sono slogan pallidi. Ma sono pallidi anche i portatori degli slogan, ed è questo il fatto nuovo di queste elezioni. La gente non li ricorda, non li distingue, vota a caso. Se proprio è costretta a dare un giudizio, si divide in gruppi di avversione simili a quelli dei repubblicani. C'è chi promette di non andare a votare se il candidato sarà Clinton e chi si impegna a stare a casa se il partito democratico si farà rappresentare da Tsongas. Nessuna voce nera, nessuna voce diversa, nessuna voce nuova. Un intero schieramento di esperti economici di sinistra e di destra, intere scuole di pensiero, in questa occasione tacciono. A differenza che nell'elezione di Reagan, non si nota presenza o interesse religioso per il dibattito, salvo l'affiorare - di tanto in tanto - della questione aborto. Invano le televisioni continuano, come in passato, a fornire notizie e commenti sulle vicende internazionali. Esse non vengono registrate nel dibattito. Ma sono anche i giorni in cui la cronaca cittadina si fa più tremenda, in cui aumentano gli omicidi e gli assalti armati fra i giovani, aumentano i senza casa, e l'edificio dell'assistenza sembra scosso da un terremoto. Anche questi temi però non ci sono nel confronto elettorale. Il solo evento importante sarebbe il dibattito fra il Presidente degli Stati Uniti e il suo avversario Buchanan, che attacca da destra. Forse fa bene il Presidente a non accettare la rissa. Ma il silenzio si riempie di incertezza, l'incertezza provoca la decisione di non votare, l'unica decisione che, per ora, molti proclamano volentieri. Furio Colombo Guerrieri All'estremismo di Pat Buchanan Bush risponde con il silenzio | usti | Qui sopra: i democratici Brown, ex governatore della California, e Tsongas, il «candidato malato». In alto: George Bush, nell'immagine grande, e Clinton. A sinistra: Pat Buchanan