Augusto De Megni sorride ai rapitori

Augusto De Megni sorride ai rapitori Un anno fa il sequestro, ieri mattina a Perugia è cominciato il processo alla banda Augusto De Megni sorride ai rapitori Il bimbo in aula: adesso non ho più paura di loro PERUGIA DAL NOSTRO INVIATO E' un sorriso rubato. A volte succede con i bambini, farli sorridere dev'essere un'arte, un gioco speciale che riesce solo a quelli più bravi. Antonio Staffa fa smorfie bonarie dietro le sbarre, senza aver l'aria di impegnarsi troppo, e fa ciao con la mano come se salutasse un amico, un figliolo. Augusto De Megni finge di non guardare da quella parte, oltre le sbarre, ma poi gli scappa da ridere, come succede a scuola quando la maestra non vuole. Non sappiamo quanto sia crudele o dolce, questa scena. Forse tutt'e due. E' un gioco strano, di complicità misteriose, come piace ai bambini. Gli altri, tutt'attorno, non guardano nemmeno, magari non sanno nemmeno. E' una storia terribilmente italiana, questa, un'immagine amaramente italiana. Antonio Staffa, piccolo e forte, con le mascelle larghe, gli occhi fermi e sicuri, era il carceriere di quel bambino, che aveva dieci anni appena quando lo tenevano nascosto e prigioniero in una grotta scavata fra i balzi che portano a Volterra, in attesa che il padre pagasse i 20 miliardi richiesti per il riscatto. Antonio Staffa era quello che gli parlava del Milan, ma che gli puntò la pistola alla tempia, la mattina, che arrivarono i Nocs, attorno alla caverna, e c'erano gli elicotteri che volteggiavano in cielo, e lui, Staffa, si arrese pregando il padre di Augusto: «Io andrò in carcere e chissà quando uscirò. Ho un figlio anch'io e ha l'età del tuo. Io te lo rido, ma tu devi pensare alla mia famiglia». Adesso, Augusto continua a guardare dietro le sbarre e continua a sorridere. Il padre gli sussurra di smettere, ora basta gli dice, dolcemente. E Augusto solo allora volge lo sguardo altrove. Il rito del processo va avanti. Il sequestro De Megni è arrivato in un'aula di tribunale, a Perugia, un anno dopo la sua fortunata conclusione: blitz dei Nocs nella campagna di Volterra, carcerieri presi e bambino libero. Il piccolo, figlio di Dino, noto industriale del legname, era stato rapito la sera del 3 ottobre del '90 nella sua villa. Imputati e vittime sono insieme nell'aula affollata. Il padre e la madre del ragazzino, che mai si parlano e si scambiano sguardi, e il vecchio capofamiglia sui banchi dei testimoni; e dall'altra parte Staffa (che nega coinvolgimenti con il sequestro Silocchi: «E' un'invenzione»), e altri due accusati, i fratelli Goddi, Francesco, piccolo e pelato e con la pancia in fuori, e Giovanni, alto e magro che va su e giù nervosamente nella gabbia. Prima che il processo cominci, Augusto si sottopone con aria quasi rassegnata alle domande dei giornalisti: «Meglio che andare a scuola», confessa. Poi: «No, non ho più paura di loro. E' un ricordo lontano», dice. «E i giudici?», gli chiedono. «No, nemmeno i giudici mi fanno paura». E Staffa? «Forse mi farà del male rincontrarlo. Non lo so. E' l'unica cosa per cui provo emozione. Un po' di paura». Ma davanti al presidente, e al pra Fausto Cardella, è calmo e sicuro. «Sei tranquillo?», gli chiede il pm. E lui: «Sì, sì», con decisione. Racconta la sera del sequestro, senza enfasi: «Sono arrivati», dice parlando dei corda i giorni della prigionia, i soprannomi dei carcerieri: «Antonio Staffa era Pino. Marcello Mele, Sergio. Antonio Talanas, Vittorio. Il primo lo chiamavo Gervasio. L'ho visto in faccia, perché una volta s'è tolto il passamontagna». Come si sono comportati con te? «Bene, Mele e Staffa più degli altri. Staffa, una notte che non stavo tanto bène, mi ha dato la sua coperta per dormire». Domanda: ti hanno mai minacciato di tagliarti l'orecchio? «Sì, più di una volta. Fu Mele a dirmelo. Mi disse che era l'ordine di un capo e che a lui dispiaceva». Il presidente adesso lo guarda: «Bravo, hai finito. Puoi andare dai tuoi genitori», gli dice. Augusto si alza, si passa le mani sui jeans e va a sedersi vicino a papà. Staffa, dietro le sbarre, gli sorride ancora una volta, con simpatia. E gli strizza l'occhio. Come faceva quando giocavano a carte, nella grotta: «Bravo, hai vinto». Pierangelo Sapegno Augusto De Megni banditi. «Io ne ho viste tre, di persone. Uno teneva mio padre, uno me. Quello che legava me mi diceva: state zitti. Poi sono usciti dalla casa. Mi avevano messo un cappuccio in testa con un solo buco per parlare. Quando il cappuccio s'è un po' alzato, ho intravisto la macchina. Era bianca. C'erano due di loro davanti e due dietro. Siamo partiti a gran velocità. Due ore di viaggio, più o meno, due ore e mezzo». Ri¬

Luoghi citati: Perugia, Volterra