Scene da un delitto, all'ombra dell'Olgiata

Scene da un delitto, all'ombra dell'Olgiata Il dramma nel dicembre del '90 a Roma, 3 colpi di pistola chiusero un'unione lacerata da litigi e vendette Scene da un delitto, all'ombra dell'Olgiata Processo al costruttorer che uccise la moglie ROMA. L'incognita del processo sono due ragazzi di vent'anni, Alvise e Cora, belli, eleganti, che nell'aula bunker del Foro Italico hanno portato lo charme e lo smarrimento di ragazzi cresciuti nel ghetto esclusivo dell'Olgiata e all'improvviso investiti da una tragedia familiare. Sul banco degli imputati siede il loro padre, il costruttore Giorgio Recchi, che nel dicembre del '90 - con tre colpi di pistola - ha ucciso la moglie, la loro mamma. E adesso tocca a loro, ai figli di questa coppia lacerata da litigi, vendette, odi, risentimenti, ripicche, pilotare in un senso piuttosto che in un altro i giudici popolari della corte d'assise davanti ai quali deporranno. Una «verità», la loro, che per Alvise e Cora sarà anche un'atroce scelta, una terribile responsabilità. Non si sa che cosa vorranno dire, se sapranno ascoltare la loro coscienza o se più forti ancora saranno le ragioni del casato, degli affetti, la voglia di non soffrire più e di seppellire definitivamente quella vicenda di morte. Da loro ci si aspetta che ricostruiscano la personalità dei genitori, la qualità del loro rapporto di coppia, le premesse di quei colpi di pistola che hanno sfracellato la testa della madre nella cucina della faraonica villa, di fronte al verde del parco, al maneggio, che erano una passione per tutti loro. La famiglia Revedin si è costituita parte civile e sottolinea tutte le colpe - negli anni del costruttore. La famiglia Recchi difende l'assassino e facendone un eroe negativo, disperato e pazzo d'amore - accusa la vittima di aver causato quella rovina psichica. I legali (Giovanni Jacovoni di parte civile, e Carlo Striano della difesa) sostengono verità opposte. I figli - che con le loro testimonianze diventano la fonte più autorevole di verifica - sono chiusi tra due fronti. Il padre insomma era un uomo fuori di sé, sfinito dalle richieste, le provocazioni, gli insulti cui la moglie lo sottoponeva? Oppure era un violento, un meschino, che non tollerava di essere stato abbandonato e la perseguitava perché non si rifacesse una vita, non ritrovasse la pace e l'affetto dei figli? E lei, la marchesa Maria Vittoria Revedin, era una donna mite e paziente, che fino all'ultimo si è battuta per uscire da quel ménage, vendere la casa mi¬ liardaria, risposarsi e stare finalmente in pace? O era una rissosa, una snob arrogante, capace di alzare le mani su di lui, di chiamarlo in pubblico con epiteti offensivi, maniaca della carta bollata, vendicativa, decisa a rovinare lui e la sua famiglia tanto da mettergli alle calcagna la guardia di finanza con tutto quello che poi ai Recchi l'ispezione è costata? La figura della donna risulta adesso la più enigmatica. Lui, suo coetaneo, appartiene a una famiglia di costruttori e sempre si è mosso nei salotti del «generone» romano come un play boy, belloccio, un po' esibizionista, fanatico dei cavalli e delle apparenze. Lei è figlia di un'americana discendente dai pellegrini del Mayflower e di un diplomatico veneziano, marchese di San Martino, Nobile di Ferrara. Nasce nel '41 a Roma. I suoi primi ricordi sono un campo di concentramento tedesco, dove la famiglia viene chiusa dal '43 al '45. Poi: le ambasciate di New York, Kenya, Uganda, Israele. E' molto bella, rossa di capelli, elegante. Parla benissimo le lingue, sa muoversi nel mondo. A New York fa l'indossatrice. A Ginevra frequenta l'Università. All'Onu, ancora in America, si occupa di pubbliche relazioni. Quando incontra Giorgio Recchi, a un concorso ippico, e decide di sposarlo, nel '68, la famiglia arriccia il naso. «Un play boy!... Divertente magari per una sera!...», dice il padre. Ma lei non cambia idea. Si costruiscono allora la villa che sarà fonte delle loro risse e scenario dell'omicidio. Ettari di prato all'inglese, scuderie, casette per gli ospiti, il corpo centrale per la rappresentanza e la famiglia, e i cavalli, i giardinieri, la servitù, gli ospiti fissi e quelli che arrivano da qualche continente lontano. Nascono tre figli - l'ultimo, Jacopo, nel '78 - ma l'unione non regge. «Troppe diversità fra loro - rac unta Pietro Revedin, con spiccato accento americano . Quando nostro padre andò in pensione e chiuse la casa di Nairobi, si trasferì all'Olgiata da loro, con i suoi mobili e le sue collezioni. Nel '71 si risposò in Svizzera e voleva indietro le sue cose. Dovette fare un'azione giudiziaria per rientrarne in possesso. Giorgio non gliele voleva dare». Troppi interessi, anche. La villa anzitutto: costruita - pare - coi soldi di tutti e due, ma intestata a lei e da lei ceduta al marito in affitto, nel 1974, fino al 2003, per un canone di un milione l'anno (mai corrisposto). Poi i figli: contesi furiosamente prima ancora della separazione che è del 1982, e assegnati infine uno a lei (il minore) e due a lui. Ancora questioni di soldi: l'assegno di mantenimento per Jacopo, di 400 mila lire mensili, corrisposto dopo istanze, citazioni. Una brutta «convivenza in casa» quando - dopo la separazione, ma secondo un'ordinanza del giudice - Maria Vittoria resta in una dépendance della villa e il marito le stacca la corrente elettrica, poi l'erogazione dell'acqua, infine per impedirle l'ingresso mette i lucchetti a tutte le porte. Una brutta trattativa per arrivare al divorzio, pronunciato pochi giorni dopo l'assassinio, sempre con il marito che non vuole mollare la casa e lei che vuole venderla. Quella mattina del 22 dicembre Maria Vittoria era andata nella villa «per discutere delle vacanze di Natale e per riprendere il piccolo Jacopo» come aveva detto al suo nuovo compagno. Era in cucina, ancora col visone addosso, seduta su uno sgabello. Il primo colpo di pistola l'ha raggiunta dietro l'orecchio, a bruciapelo, gli altri due alla tempia mentre stava cadendo a terra. Lui, a stampatello, in una memoria difensiva ha scritto: «Andai a prendere la pistola per porgerla a lei, perché ponesse fine con dignità alla mia vita... Non ho mai avuto intenzione di usare quell'arma contro mia moglie... Ricordo gli ultimi insulti e provocazioni nei miei confronti: «Finalmente sono riuscita a rovinarti, mi ci sono voluti parecchi anni, più di quanto avrei previsto... sei un uomo finito, oltre a distruggerti sono riuscita a farti impazzire»». E' la linea che porterà avanti. Se la sta studiando con cura, nella grande villa dove vive ormai solo, agli arresti domiciliari. Liliana Madeo Maria Vittoria Revedin (la vittima,... nella foto grande). Di fianco il marito

Persone citate: Carlo Striano, Cora, Giorgio Recchi, Giovanni Jacovoni, Kenya, Liliana Madeo Maria Vittoria, Maria Vittoria Revedin, Recchi