Belushi, ucciso dalla frenesia di vivere

Belushi, ucciso dalla frenesia di vivere Dieci anni fa moriva per overdose in una camera d'albergo il comico demenziale: fu uno dei grandi della controcultura Belushi, ucciso dalla frenesia di vivere Lanciò uno stile, impersonò il disagio incontrollabile del suo tempo DIECI anni fa, venerdì 5 marzo 1982, John Belushi, amatissimo showman americano d'origine albanese, comico demenziale irresistibilmente divertente e allarmante, uno dei grandi della controcultura, venne trovato morto in un bungalow allo Chateau Marmont di Hollywood. Aveva trentatré anni, era famosissimo. Pesava più di cento chili, era logorato dalla cocaina, dall'eccesso di cibo, dall'insonnia, da una perenne furiosa frenesia, da un' esistenza straordinaria e insieme disperata. Nelle ore precedenti la morte Cathy Smith, amica e procuratrice di droga anche d'altri divi, gli aveva iniettato l'eroina a cui non era abituato. A trovarlo, verso mezzogiorno, fu Bill Wallace, guardia del corpo e istruttore. John Belushi stava nel letto, nudo, pesante, immobile: aveva le lab- bra viola, la lingua fuori, e il lato destro del corpo in cui doveva essersi fermato il sangue appariva spaventosamente nero. Era morto di overdose. Dieci anni dopo, resta indimenticata la breve vita delirante dell'interprete di «Animai House», «The Blues Brothers» e dell'Ape Assassina, del personaggio che lanciò uno stile e impersonò il disagio incontrollabile, l'incertezza esplosiva d'una generazione. Il vestito nero strapazzato, il cappello nero, gli occhiali dalle lenti nere, divenuti un emblema immediatamente riconoscibile, sono stati adottati pure da Giorgio Gaber e Enzo Jannacci in un loro spettacolo in coppia, pure da un imitatore grasso ed elastico caprioleggiante in uno spot pubblicitario. Sulla sua morte e la sua vita Bob Woodward, il giornalista del «Washington Post» coautore dell'inchiesta sul Watergate che contribuì alla caduta del presidente americano Nixon, ha scritto nel 1984 «Wired» (Fulminato), pubblicato in Italia da Frassinelli col titolo «Chi tocca muore»: è uno dei libri più belli e duri non soltanto su Belushi ma sul mondo drogato dello spettacolo a Hollywood, e infatti ha avuto molti guai giudiziari da parte della vedova Belushi, di alcune società cinematografiche, di alcuni divi citati come consumatori di cocaina (anche Jack Nicholson, Robert Dreyfuss o Robin Williams, anche Carne Fisher, ma in pratica tutti). Da questo libro è stato tratto un film sentimentale confuso e brutto, pure intitolato «Wired», diretto da Larry Peerce, interpretato da Michael Chiklis e da Patti D'Arbanville nella parte della dispensatrice di droga, presentato nel 1989 al festival di Cannes. Dieci anni dopo, tutto è cambiato. Nessuno più considera la droga come un mezzo d'autodistruzione romantica: è soltanto un commercio criminale, una piaga sociale, una dannazione. Dan Aykroyd, l'altro Fratello della coppia, compagno di John Belushi negli sketches e nell'enorme successo dello show televisivo della Nbc «Saturday Night», nei film e nelle avventure, interpreta personaggi comici usuali anche in film canadesi per famiglie. John Landis, il regista di «Animai House» e di «The Blues Brothers», tenta di contrabbandare Sylvester Stallone per un attore brillante, per uno spiritoso da commedia. Steven Spielberg, che amava Belushi e lo volle come pilota pazzo in «1941», è cambiato meno di altri: come ogni perpetuo bambino. Jim Belushi, il fratello meno gemale di John, da quando lui non c'è più riesce finalmente a recitare (anche in «Dimenticare Palermo» di Francesco Rosi) e migliora continuamente. Robert De Niro, un amico che John Belushi adorava e chiamava «Bobby D.» e invidiava per la fisicità del recitare, resta ancora il più bravo. Carne Fisher, compagna di lavoro e di tanti eccessi, aspetta un figlio da un agente di Hollywood e assicura d'essere molto felice. La comicità demenziale sta passando di moda, ma i Blues Brothers seguitano ad avere in tutto il mondo sempre nuovi ammiratori televisivi o videocassettisti. E non scolorisce il ricordo di John Belushi, rockstar immaginaria, orsacchiottomostro con le tasche piene di Quaalude e di Percodan, genio della risata folle che non conosceva la moderazione e che si commuoveva cantando «Guilty» di Randy Newman: «Lo sai che non mi sopporto / mi ci vogliono un sacco di medicine, tesoro / per far finta di essere qualcun altro». Lietta Torna buoni John Belushi ha avuto una breve vita delirante interpretando l'incertezza esplosiva di una generazione

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