1848, il Consiglio dà scacco al re

1848, il Consiglio dà scacco al re Così nacque lo Statuto di Carlo Alberto 1848, il Consiglio dà scacco al re // Presidente della Repubblica, Francesco Cassida, interverrà oggi a Torino, a Palazzo Reale, alta presentazione dell'opera edita dalla Fondazione. San Paolo: «Lo Statuto Alberi ino e i. lavori preparatori» (che contiene la raccolta dei verbali, in lingua francese). Oratore sarà il Presidente, del Senato, Giovanni Spadolini. Anticipiamo qui, per i lettori della Stampa, una parte del suo discorso. mpRINO 1847. E' la 'l'Icittà che forse, in tutta I Italia, è stata meno perI corsa dai fremiti giaco* Ibini e rivoluzionari. E' la sola città capitale di Stato che non abbia piegato al vento dell'89 portato dagli eserciti francesi: a parte la breve parentesi dell'albero simbolo degli ideali giacobini piantato nel dicembre 1798, in quella che si chiamava allora piazza Nazionale e che oggi conosciamo come piazza Castello, e abbattuto dalla popolazione al momento dell'ingresso in Torino delle truppe del maresciallo Suvorov, il 25 maggio 1799. E' la città sottratta alla sorte della Repubblica italiana e poi del Regno italico negli anni napoleonici: nella prepotenza di quell'annessione diretta alla Francia che nasceva dalla stessa natura bilingue, e binazionale, del Regno sabaudo. E' la città dove il primo tentativo costituzionale nel 1821, di ispirazione molto più spagnola che francese, fallirà per il voltafaccia di Carlo Alberto, appena mitigato, per le generazioni successive, dall'immolazione di Santorre di Santarosa. E' la città che resterà del tutto estranea ai moti del 1831 e alla ventata costituzionalista che investirà le province unite o, come già si chiamarono con ardimentosa intuizione, gli Stati Uniti d'Italia. Torino, capitale orgogliosa E la città più resistente alla febbre del neoguelfismo, non foss'altro che per l'orgoglio della capitale politica che si sentiva offuscata dalla capitale della futura confederazione, dalla Roma pontificale, in virtù di quel cattolicesimo piemontese tanto compatto quanto chiuso in se stesso ed estraneo a circolazioni o comunicazioni col mondo. «Per intendere bene il mio Primato - scriveva il torinese Gioberti - bisogna saper leggere: cosa rara in Piemonte...»: segno della «sua terribil ira», come dirà Balbo. Fra la fine del 1847 e l'inizio del 1848, dunque, nessun elemento concorreva a designare in Carlo Alberto il re destinato ad attuare l'indipendenza dell'Italia e nessuno a prospettare il suo diritto all'egemonia sugli altri Stati della penisola. Nulla - confermò col suo stile lampeggiante Adolfo Omodeo - accennava a doti e requisiti tali da far preferire lui e la sua Casa a «Leopoldo di Toscana o a Ferdinando di Napoli avanti il 15 maggio». Eppure questi verbali del consiglio di conferenza di Carlo Alberto relativi alla preparazione dello Statuto fra il 7 gennaio e il 4 marzo 1848, pubblicati dalla Fondazione San Paolo di Torino e introdotti dal presidente Cossiga, ci obbligano a correggere molti tabù della tradizione, a domandarci il perche quella pianta costituzionale, pur timida, pur gracile, pur svincolata dalla tradizione diretta della grande rivoluzione, abbia fiorito in Piemonte e dopo il '49 solo in Piemonte; fino a far diventare il Parlamento sardo, senza soluzione di continuità, Parlamento italiano. E' una lettura appassionante. Seggono intorno al tavolo delle riunioni del Consiglio, nel Palaz¬ zo Reale, gli uomini del «vecchio Piemonte», perplessi, riluttanti, come folgorati dalla notizia della decisione del sovrano di Napoli di concedere la Costituzione. E dall'altra parte si affacciano, con gli stessi titoli nobiliari, con le stesse anzianità e gli stessi privilegi di corte, gli «uomini delle riforme», coloro i quali non paventeranno il salto nel buio del futuro di libertà. Cerano spinte e controspinte intorno a quel tavolo, dominato dall'«italo Amleto». Ma da questi verbali appaiono, insieme con 1 limiti, i dati peculiari e positivi di uno Stato che, oligarchico e militaresco che fosse, era pur sempre uno Stato. Imperniato prevalentemente sulle caste aristocratiche, militari e burocratiche, insofferente dell'avanzata e delle inquietudini della borghesia; ma sempre Stato che, in qualche modo, aveva preceduto nel tempo gli altri ordinamenti cercando di dare un assetto moderno al proprio apparato governativo. Fin dai tempi di Vittorio Amedeo II c'era stato l'avvio di un'organizzazione razionale dell'apparato governativo: la decisione presa nel 1717 di dividere i compiti della segreteria di Stato e di ripartirli fra i diversi uffici rappresentò il primo esempio, in Italia, di distinzione dei Dicasteri ministeriali, le cui funzioni saranno ripartite in base al criterio delle competenze per materia (Esteri, Interni, Guerra). In quel Piemonte del 1847, l'opera del sovrano era affiancata da due organi: il Consiglio di Conferenza, il vecchio Consiglio dei ministri, composto dai titolari dei dicasteri e presieduto dallo stesso re che aveva provveduto ad una sua riorganizzazione per meglio articolare l'azione dell'esecutivo in vista della generale riforma dello Stato; e il Consiglio di Stato, supremo organo consultivo della monarchia, creato nel 1831, il cui parere era necessario per la validità di ogni provvedimento legislativo. Non c'è ancora un Parlamento; ma c'è già un governo e una corrispondente struttura di governo. Lo Statuto sarebbe diventato il punto di partenza di uno svolgimento delle istituzioni proiettato verso un approdo allora imprevedibile. L'adunanza del Consiglio del 3 febbraio 1848 si rivela il momento di svolta nel processo decisionale politico che ha portato alla concessione dello Statuto e l'operatore maieutico è il Ministro e primo Segretario di Stato per gli Affari dell'Interno, Conte Borelli. E' il Borelli che in due lunghi colloqui con il Sovrano, il 2 febbraio e il mattino del 3, prima della riunione, ha preparato il terreno, ponderato le diverse alternative, sondato le perplessità e gli slanci del Monarca (le une grandi quanto le altre). E, dunque, tocca al Borelli far uscire la monarchia ed il governo sardi da un'impasse che poteva diventare fatale, aprire la «fase calda» della discussione in Consiglio. «Quale linea deve seguire il Ministero?» pone la domanda il Ministro dell'Interno e risponde: «Se Sua Maestà giudica inevitabile una Costituzione, come tutto porta a credere... bisogna darla e non lasciarsela imporre...». Ecco l'inizio; tutti noi sappiamo cosa accadde in seguito. Solo lo Statuto Albertino sopravvisse alla dissoluzione delle istituzioni rappresentative italia¬ ne e finì per offrire un punto di coagulo rispetto a tutti i fermenti di rinnovamento e alle spinte liberali che ormai sempre più diffusamente si manifestavano nell'Italia intera. Ci fu sicuramente un qualche cosa, una forza interiore che consentì allo Stato sardo di superare il disastro militare, l'armistizio, l'umiliazione dell'esilio del re: e questa forza fu lo Statuto. Non come lo aveva concepito il sovrano Carignano, quale semplice limitazione del potere regio. Ma come esso si sarebbe modellato rispondendo alle esigenze di una realtà in profonda evoluzione. Perché «subito si era instaurato il regime parlamentare, non previsto dallo Statuto; il potere del re di negare sanzioni e leggi mai era stato esercitato, e nessuno poteva più, neppure in via di ipotesi, pensarlo in atto» (sono parole di Arturo Carlo Jemolo. Ripensiamo con lui a Giorgio Falco, a Giuseppe Maranini, a tutti coloro che si sono occupati della genesi dello Statuto Albertino). La parola «Parlamento» non esisteva nello statuto di Carlo Alberto. Esisteva la «Camera dei deputati», a suffragio ristrettissimo, che esercitava insieme con il re - anzi collegialmente col re il potere legislativo.' Esisteva il Senato del Regno, come organo di freno, di stabilizzazione e di garanzia (tutti i membri scelti dal re in base a titoli specifici e a vita). Eppure - al di là dei testi scritti -, già nella procedura, l'assemblea di insediamento conquistava l'unità del Parlamento: riunendo Senato e Camera nella stessa sede, il glorioso Palazzo Madama che da secoli ospitava lo speciale Senato piemontese e che doveva servire all'Assemblea vitalizia. Il giornalista Cavour Il disegno costituzionale si completa. I due rami del legislativo fanno parte dello stesso albero. E da quell'albero nascerà il primo regime parlamentare italiano che reggerà la prova della seconda restaurazione, che il governo di Cavour consegnerà intatto all'Italia unita dodici anni dopo (solo Roma batterà, per i brevi mesi della repubblica di Mazzini, il primato piemontese in quanto unirà all'idea del Parlamento l'idea della Costituente). Ecco il giudizio che Cavour grande giornalista prima che grande statista - formulò sullo Statuto dalle colonne del Risorgimento: «Esso consacra fra noi tutti i diritti di cui godono le nazioni più incivilite... Il re con il concorso della nazione, potrà sempre nell'avvenire introdurre tutti i cambiamenti che saranno indicati dall'esperienza e dalla ragione dei tempi. Ma se un tale potere sta nel Parlamento da noi dichiarato onnipotente, il re solo non lo possiede più». Oggi lo Statuto Albertino appartiene ad un passato irripetibile. Ma la stella polare del nostro lavoro di perfezionamento, di integrazione e in taluni casi di attuazione costituzionale resta l'idea del Parlamento come supremo presidio delle libertà repubblicane. Un'idea cui non potremmo rinunciare mai. Giovanni Spadolini