Paolo Conte: «Così è entrato nel jazz»

Paolo Conte: «Così è entrato nel jazz» Viaggio fra i protagonisti di un genere Paolo Conte: «Così è entrato nel jazz» PER quanto il jazz, nella sua esplosione all'inizio del secolo, abbia subito impartito agli strumenti della tradizione (dal tamburo alla tromba, al pianoforte, trombone, clarinetto ecc. ecc.) una nuova e rivoluzionaria lezione in fatto di dinamica (swing) e di pronunzia, dizione e timbrica (primo fra tutti il tentativo costante di imitazione della voce umana), le funzioni in orchestra affidate ai vari strumenti sono rimaste sostanzialmente le stesse. Tutta la «letteratura» che si portavano in dote gli strumenti di più antica tradizione classica non è in verità mai sparita. Più antiche e collaudate sono questa letteratura e questa tradizione, più agevolmente il jazzista primitivo si accosta allo strumento. Così notiamo una formidabile fioritura di artisti meravigliosi, fin dall'inizio dell'era del jazz classico, proprio con quegli strumenti di più antica tradizione espressiva: tutti i grandi pianisti, i grandi trombettisti, trombonisti e batteristi sono presenti nell'epoca arcaica, già forniti di un bagaglio stilistico perfettamente definito. Ultimo ad arrivare nella tavolozza strumentale classica era stato il saxofono, recente per invenzione e sottoposto dunque a collaudo espressivo molto limitato. Ultima eredità della strumentazione classica, il saxofono sarà anche l'ultimo a rendersi, in ordine di tempo, funzionale al jazz e a iniziare la propria ascesa e la propria evoluzione tecnico-stilistica in quel fenomeno. Questo concetto - che ho personalmente ereditato sotto forma di semplice e occasionale osservazione fattami molti anni fa dal mio grande maestro Mingo Chiodo, uno dei massimi intenditori occulti di jazz nel nostro Paese - chiarisce l'affannosa e tortuosa camminata dei saxofonisti nel sogno stilistico, che fu sempre del jazz un costante cauchemar quotidiano. I primi a snellire il fraseggio e ad atteggiare il proprio solismo all'invenzione sono stati i sopranisti (Bechet in testa), essendo il sax soprano, guarda caso, quello della famiglia più collaudato nelle bande etniche e militari. Secondo arriverà, nella scia dei sopranisti, il sax contralto, che incontrerà tuttavia più tempestose osservanze stilistiche e ambientali a causa della propria natura «equivoca», tipica del ruolo di contralto in orchestra, miscela affascinante di mascolinità e femminilità, tenuto nel setticlavio sulla tessitura e chiave della viola e tagliato fisicamente in mi bemolle (indico, saltando i celebri grandi del contralto Hodges, Willie Smith e Parker, i due estremi antico e moderno in Charlie Holmes e Omette Coleman passando per Tab Smith). In ruoli secondari (benché a disposizione di eccellenti solisti) dovrà restare relegato il sax baritono, strumento fascinoso, inquieto e torbido, ma limitato nella tessitura cantabile (piacerà comunque molto a Gershwin nella prima orchestrazione di Rapsody in Blue, e riacquisterà solo nell'epoca dell'alta tecnologia di registrazione una funzione più esauriente). Sorvoliamo su rare immagini quali quella del sax basso (ad imitazione del fagotto), ottimo strumento, tuttavia scomodissimo e soppiantato nel corso degli anni dal sousaphone (ottone) e dal contrabbasso (corda). E sorvoliamo anche sul rarissimo C Melody Sax, impiegato ottimamente da Trumbauer in una funzione espressiva tipica di un contralto. Arriviamo invece al sax tenore, il saxofono per eccellenza, quello che forse più degli altri ha simbolizzato il jazz. Si è svegliato tardi, più tardi di tutti gli altri saxofoni, poi ha deflagrato la sua comunicatività, potenza e varietà in mille formule e in mano a mille campioni. Ho le mie preferenze: per gli inizi accolgo più volentieri le prove dei bianchi (Bud Freeman e Eddy Miller) che non i più pretenziosi assalti alla materia sonora portati dai giganteschi Hawkins e Choo Berry ancora presi dall'ansia di una ricerca di linguaggio (fraseggio, suono, densità) tanto solenne quanto affaticante. Nell'arco del jazz classico e pre-moderno dico subito di non amare il lavoro di Lester Young (uomo del Sud che si esprimeva in un Nord pieno di fantasmi), la cui battaglia contro l'enfasi, risoltasi in sostanza nella fondazione di un'altro enfasi, considero perduta. A testimoniare il periodo di transizione tra il jazz classico e quello cosiddetto moderno preferisco chiamare due bianchi più o meno sconosciuti: Nick Caiazza e Jerry Jerome. Non amo, non ci sono mai riuscito, i saxofonisti del periodo californiano, troppo formulari e trascrivibili; me ne infischio del celeberrimo John Coltrane, tribuno a tutti i costi della propria «attualità» (così come in pittura non mi importa niente di Magritte e Dalf e di tutti i raccontatori di inquietudini, quando tutta l'inquietudine della pittura moderna so già essere contenuta in Cézanne), scelgo invece senza esitazioni Archie Shepp ma continuo ad affermare che la palma di veri vincitori delle battaglie per l'affermazione del sax tenore la meritano due grandi texani: Illinois Jacquet e Arnette Cobb. Paolo Conte Paolo Conte, nel doppio ruolo di musicista e critico: «Me ne infischio del famoso Coltrane. I saxofonisti sono altri»