Bush, un martedì di paura

Bush, un martedì di paura USA Si vota in 7 Stati del Sud, i sondaggi sono contro il Presidente Bush, un martedì di paura «La crisi economica? E' colpa della maggioranza democratica al Congresso» All'attacco ilfalco Buchanan, in Georgia sfida decisiva tra Clinton e Tsongas WASHINGTON DAL NOSTRO CORRISPONDENTE George Bush promette, biasima e prega, mentre aspetta con ansia crescente il risultato delle primarie di oggi. Non si tratterà ancora di un verdetto quasi risolutivo come quello del «Supertùesday» del 10 marzo, martedì prossimo, quando si recheranno alle urne gli elettori di 11 Stati, alcuni dei quali molto importanti. Ma oggi si esprimeranno pur sempre i cittadini di 7 Stati, tra i quali Colorado, Maryland e Georgia e il risultato, già abbastanza importante in sé, influirà a sua volta su quello della prossima settimana. Bush è costretto a lottare sempre più aspramente con quell'incarnazione dei suoi limiti che risponde al nome di Patrick Buchanan, l'irruente populista di destra senza passato politico le cui demagogiche certezze fanno maggiormente risaltare le trepide incertezze del Presidente uscente. Per fronteggiarlo, il fervente anglicano Bush corteggia gli elettori battisti nelle loro chiese, mentre la propaganda del suo avversario irlandese lo accusa di aver foraggiato l'arte moralmente corrotta e la pornografia. Promette «un nuovo inizio» ai sudisti della Georgia, assicurando di non essere ancora «cotto», ma sembra non rendersi conto che con promesse per il futuro simili a scuse per il passato, è come confessasse di «aver dormito per tre anni», secondo l'accusa dei conservatori reaganiani. Intanto, mentre l'ultimo sondaggio fatto in Minnesota, uno dei sette Stati di turno oggi, quota sempre più al ribasso il consenso attorno a lui, il Presidente attacca con crescente intensità i democratici, in quanto veri responsabili, con la loro maggioranza in Congresso e con la loro opposizione alle sue misure, della mancata ripresa economica. Gli uomini del vicepresidente Dan Quayle, solidali a Bush per evidenti interessi di squadra, sostengono che, in fondo, è meglio che la sfida di Buchanan si sia presentata minacciosa fin dall'inizio. «Costringe noi a una rapida messa a punto del messaggio elettorale - dicono - e questo è bene, perché c'è ancora tempo per aggiustare le cose, mentre a settembre sarebbe troppo tar- di». Suona un po' come fare di necessità virtù, perché, se resta vero che Buchanan ha altrettante possibilità di strappare la nomina quanto quelle della General Motors di rompere la schiena all'industria automobilistica giapponese, una sua affermazione nel Sud, in Georgia, lo legittimerebbe come candidato nazionale e questo indebolirebbe ulteriormente Bush rispetto agli avversari democratici. La Georgia è particolarmente importante anche per Bill Clinton, che, venendo da un altro Stato del Sud, l'Arkansas, deve strappare oggi quel vantaggio che potrebbe farlo decollare come «front runner», uomo di punta, dei democratici. Ne ha bisogno, perché i dubbi sulla sua personalità covano ancora nella cenere pronti a riaccendersi, nonostante qualche segno di ripresa negli ultimi giorni. Paul Tsongas, che è ancora l'attuale «front runner», non ha grandi speranze sul Sud e non può ricavare granché da una buona affermazione in Maryland, che resta pur sempre uno Stato del «suo» Nord-Est. Per lui, il risultato più importante sarà quello tra le Montagne Rocciose, in Colorado. Potrebbe simbolicamente aprirgli la via del West. La debolezza dei cinque candidati democratici (oltre a Clinton e Tsongas, Bob Kerrey, Tom Harkin e Jerry Brown) resta, comunque, il miglior oroscopo per Bush. Tutti deboli, sono costretti, per prevalere, ad attaccarsi l'un l'altro. E così indeboliscono il fronte democratico. Essendosene accorti, quando le polemiche tra loro superano il segno, cercano di riprendersi attaccando tutti insieme Bush come «nemico principale». Ma poi, fatalmente, ricominciano a litigare. Paolo Passarmi