Orsini: torno con Ronconi di Donata Gianeri

Orsini: torno con Ronconi Incontro con l'attore, che parla del «Nipote di Wittgenstein» Orsini: torno con Ronconi «Il nostro progetto, rappresentare Werfel» Per tre mesi interpreta Bernhard a Roma ROMA. Con una lunghissima frase-monologo, «Il nipote di Wittgenstein» di Thomas Bernhard, rievocazione di un'amicizia ma anche esposizione di una lucida follia, Umberto Orsini affronta per tre mesi il pubblico del Piccolo Eliseo. Una sfida? O semplicemente un omaggio alla moda che oggi vede in Bernhard il fiore all'occhiello degli intellettuali? «Bernhard è di moda, è vero: credo che nella stagione scorsa ne saranno state date almeno dieci commedie soltanto in Francia. Ma è anche vero che io lo amo molto e sono anni che sogno di metterlo in scena. E poiché i diritti della pièce che mi interessava sono stati acquistati da un altro, ho scelto questo romanzo dopo aver visto in video l'esemplare riduzione teatrale che ne ha fatto a Parigi con gran successo il regista Patrick Guinand. E ho avuto modo di scoprire che questo testo, non scritto per il teatro, permette di capire l'autore meglio di qualsiasi altro». Quindi lei, in scena, è un Bernhard perfetto. Ho cercato invece di non assomigliargli. Non ho voluto caratterizzare il personaggio, ma essere il più possibile me stesso, con la mia faccia, la mia voce, i miei movimenti anche se, alla fine, Bernhard riesce a sopraffarmi. Di lui ho un solo ricordo: lo vidi anni fa alla televisione in un'intervista, forse l'unica che abbia mai concesso. Mi affascinò il suo modo di parlare della morte, del cibo, dell'amore, del suicidio, delle donne, sempre con lo stesso tono uniforme, senza mai uno sbalzo emotivo. Ecco: ho cercato di imitare soltanto questo suo modo di parlare atono, privo di pause. Che cosa le piace, in Bernhard? Penso che la sua grandezza consista in una inesauribile capacità di parlare dell'uomo. Poi mi piacciono la sua ironia, il sarcasmo, il dolore, il suo linguaggio apparentemente ripetitivo, quasi circolare, che ad ogni girone aumenta di una parola. E di un significato. Anche il suo modo di far teatro è a gironi: ogni anno lei aggiunge un tassello. E ogni girone per me ricomincia dalla parola. Come in questo testo, in cui la parola è totalmente privilegiata: un lungo monologo con un personaggio inventato dal regista (Valentina Sperlì) che ascolta, ma non interviene mai se non con qualche colpo di tosse. Una presenza muta: in realtà lui è solo, con il suo profluvio di parole. Non è facile tenere avvinto il pubblico con una frase, per di più infinita. Certo che non lo è: si tratta di amministrare un'ora e mezzo di parole e arrivare al cuore del pubblico, coinvolgendolo emo- zionalmente al punto che, caduto nel viluppo, non riesca più a venirne fuori. Lei è convinto di riuscirci? So di essere arrivato al punto in cui posso mettere alla prova il pubblico, offrendogli soltanto spettacoli di largo consenso o di totale dissenso. Questo Bernhard è un testo che può piacere o irritare, ma non lascia indifferenti e si rivolge individualmente ad ogni singolo spettatore: una sorta di confidenza, che va fatta ad una persona per volta. Non è certo uno spettacolo di massa: per questo lo programmo al Piccolo Eliseo dove rimarrà in scena per tre mesi e verrà visto in totale da 15 mila spettatori. Una platea che Bernhard non si è certamente mai sognato. Una specie di moltiplicazione dell'elite: e prossimamente cosa offrirà al suo pubblico, il bastone, o la carota? Diciamo il bastone: nell'aprile del '93 dovrei mettere in scena, con la regia di Ronconi, «Una scrittura femminile azzurro pallido» di Franz Werfel. Si tratta per ora solo di un progetto. Ma è certo che tornerò a lavorare con Luca, che rappresenta per me un'avventurosa evasione dal teatro di consenso. Dopodiché cercherò di riconquistare il mio pubblico, perché ho bisogno di lui. E so che lui ha bisogno di me. Donata Gianeri Umberto Orsini in «Il nipote di Wittgenstein» di Thomas Bernhard

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