L'alcol scatena la rivolta dei pubblicitari di G. Tib.

L'alcol scatena la rivolta dei pubblicitari Parte la battaglia dell'associazione di categoria contro i limiti imposti alle nuove campagne L'alcol scatena la rivolta dei pubblicitari «Che cos'è una bottiglia senza play-boy e belle donne?» ROMA. Giù le mani da Michele, l'intenditore con la I maiuscola che conquista i salotti riconoscendo il whisky dall'odore. E dai tre amici che riparano biplani per hobby bevendosi un amaro. E dalla biondona dell'aperitivo che scappa in bicicletta alzandosi maliziosa la gonna. Michele, gli amici, la biondona: potenzialmente sono tutti nel mirino del decreto Vizzini sulla pubblicità degli alcolici, articolo 7 comma C: «Gli spot televisivi non devono indurre a credere che il consumo di alcol contribuisca al successo sociale o sessuale». Il provvedimento del ministro delle Poste, che risponde a una direttiva della Cee, ha messo i creativi sul sentiero di guerra: «E' meglio essere interrotti dalla pubblicità o dalla censura? - dice una campagna lanciata nei giorni scorsi dall'Assap, l'associazione nazionale delle agenzie -. Reprimere la pubblicità significa reprimere la libertà di mercato e la libertà di pensiero». Parole grosse. «E' l'ennesimo provvedimento demagogico che non serve a nulla - spiega Giancarlo Livraghi, che dell'Assap è presidente -. In Italia ci sono sempre state regole precise, imposte da un codice di autodisciplina severo e rispettato da tutti. La censura non migliora la pubblicità: riesce solo a renderla vaga o incomprensibile. Il risultato è che gli investimenti si allontanano dalla pubblicità per passare ad altri canali, meno controllabili e trasparenti...». Gli investimenti pubblicitari del settore, infatti, stanno segnando il passo: 465 miliardi nel '91 contro i 473 dell'anno precedente. «Si tratta di vedere come verrà interpretato il decreto -, commenta Felice Lioy, presidente dell'Upa, l'associazione che riunisce le aziende che investono in pubblicità -. Contiamo nel buon senso del garante: se sarà restrittivo non ci sarà più spazio per nessuno. In realtà - continua Lioy - il problema è mal posto. La pubblicità degli alcolici non è nociva, non c'è nessuno che si ubriaca dopo aver visto uno spot in televisione. I comunicati difendono la qualità: servono per spiegare al consumatore quali sono i prodotti migliori, lo difendono dagli intrugli. E poi c'era già l'autodisciplina». Il codice è l'arma più usata in questa guerra ad alta gradazione contro il decreto. «Noi ci siamo sempre uniformati alle norme afferma Ugo Gatti, presidente della Milano & Grey, l'agenzia che cura le pubblicità Four Roses, Chivas e Glen Grant -. Il successo sociale? Nei nostri spot non ce n'è neppure l'ombra: il Chivas è presentato come un regalo, non come consumo. E l'uomo del Glen Grant è un archeologo, non un playboy...». «Lo Stato si è intromesso in una questione che non era di sua competenza - spara Daniele Rossi dell'Assobirra, la confederazione dei birrai -. E il risultato è addirittura contrario agli obiettivi. E' vero che la norma di legge ricalca quasi alla pari le direttive del codice di autoregolamentazione, ma questo era uno strumento dinamico, aggiornato ogni due o tre anni seguendo l'opinione pubblica. Adesso, invece, è tutto ingessato». E c'è di più. «La Rai - continua Rossi - ha sempre avuto attraverso la Sacis un controllo severissimo sugli spot da mandare in onda. Addirittura più rigido dello stesso codice di autoregolamentazione. Tutto ciò rischia di essere vanificato dal decreto». Un altro pasticcio all'italiana? «Prima era conveniente puntare soltanto su Berlusconi - sorride Massimo De Magistris della Alberto Cremona, l'agenzia milanese che cura gli spot Aperol, Unicum e Bayleis -. Adesso daremo l'assalto alla Rai...», [g. tib.]

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