FUSCO, IL NARRATORE CHE ANDAVA A GRAPPA

FUSCO, IL NARRATORE CHE ANDAVA A GRAPPA FUSCO, IL NARRATORE CHE ANDAVA A GRAPPA Dove sono finite le sue «Rose del ventennio»? DUE o tre settimane fa nel pezzo per Quelli che... l'antologia di testi di Beppe Viola, messa insieme per Baldini & Castoldi da Gino & Michele, avevo scritto la frase: «Dopo Fusco era il più grande narratore di storie davanti a un whisky e anche a un semplice bianchino», ma mi pareva incompleta, e, riflettendoci, ho scoperto che ero vittima di un'amnesia a tradimento a proposito del nome di battesimo di un amico indimenticàbile. Purtroppo, a una certa età, la memoria gioca soprattutto con i nomi dei più conosciuti e dei più cari, per umiliarci peggio del calendario e degli acciacchi. Inutile impuntarsi a cercar di fare riemergere un dato nome. Eppure mi pareva inverosimile non ricordarlo. Ancor più inverosimile mi è risultata la successiva scoperta. Ho cercato a colpo sicuro nel dizionario bio-bibliografico degli autori de La letteratura italiana di Alberto Asor Rosa (Einaudi, 1990), un ricchissimo repertorio in due volumi, tanto generoso da comprendere persino la voce «Del Buono Oreste» e ho sbattuto contro il fatto che tra la voce «Fuscano, Giovanni Berardino (Napoli? sec. XVI)» e la voce «Fusconi, Giovanni Battista, in religione Agostino (Genova 1601-Venezia? 1650?)» esistevano ben due Fusco, «Fusco, Edoardo, Trani, Bari (1825Napoli 1873)» e «Fusco, Orazio (sec. XVI)», ma nessuno dei due era evidentemente il mio Fusco. A questo punto, la capricciosa memoria mi ha finalmente suggerito un veridico «Giancarlo», ma mi ha lasciato in preda al rammarico e allo sconforto della mancanza imperdonabile di quella voce. Possibile prender tanto alla lettera la dichiarazione di Manlio Cancogni, l'amico che nel 1949 spinse Giancarlo Fusco a scriver le sue impareggiabili storie per II Mondo: «Il giornalismo era un mestiere al di sotto del suo talento: alla macchina da scrivere faticava perché la parola scritta gli stava stretta, perché lui, indisciplinato, si struggeva dentro le regole piatte dell'articolo, nel terrore di essere un dilettante. Ma il suo vero mezzo espressivo era la parola orale: a noi seduti al caffè Fappani di Viareggio, ci annientava, con la sua meravigliosa capacità di raccontare, di rappresentare, con una incredi bile sensibilità percettiva, dei fatti che attraverso i suoi gesti e le sue parole diventavano fantastici, storie indimenticabili quando parlava era grande come Tolstoi scrittore...»? Intendiamoci: tutto più che vero in questa dichiarazione che Natalia Aspesi riporta nella prefazione all'antologia fu schiana II gusto di vivere da lei curata per Laterza nel 1985. Giancarlo Fusco è stato il più grande narratore orale italiano di questa seconda metà del secolo. Ma anche uno straordinario giornalista per 72 Mondo, appunto, L'Europeo, L'Espresso, Cronache e II Giorno, e anche uno scrittore vivace e risentito. Chi altri è riuscito a scrivere con uguale grazia, commozione e ironia della Storia d'Italia come Giancarlo Fusco ne Le rose del ventennio (Einaudi, 1958, poi Rizzoli, e poi chissà dove nel mare dell'incuria, che dalle nostre parti vien chiamata, industria culturale)? Non è lecito comunque trascurare Giancarlo Fusco in un dizionario degli autori italiani. Giancarlo Fusco a voce ha narrato non la sua vita, ma le sue vite, per l'esattezza: le sue molte vite, perché se ne inventava almeno una diversa secon- do il giorno o l'interlocutore. Il suo carburante preferito era la grappa. E' un luogo comune che la ditta Nardini per un certo periodo inviò settimanalmente a casa sua un carico di grappa, ma indirizzandolo, dato il consumo, al «Bar Fusco». Ne mandava giù anche trenta bicchierozzi quotidiani. Parrebbero certe, comunque, data e località di nascita e di morte: 18 giugno 1915, La Spezia - 17 settembre 1984, Roma. La scuola fu la sua prima ossessione, non ne poteva sopportare le «indicibili miserie», le «ristrettezze mentali e morali», le «emulazioni inutili e indegne», i «voti maledetti senza senso», gli «esami, ostacoli atroci non già per la loro intrinseca difficoltà, ma per il sigillo di ebetitudine sociale, umana su di essi marcato...». Lo misero in collegio a Lucca, fu il primo carcere da cui evadere. Le evasioni furono molte da allora. La leggenda che lo precedeva e lo tallonava lo fa arrivare al- VEuropeo, diretto da Arrigo Benedetti e ancora edito da Gianni Mazzocchi, nel 1950. «Benedetti», racconta Camilla Cederna ne II mondo di Camilla, Feltrinelli, 1980, «che aveva un gran fiuto, fece collaborare anche illustri letterati, assunse Cancogni, Todisco, Borgese, e, secondo la leggenda, tirò fuori da sotto le barche di Viareggio, dove si dice che usava dormire, Giancarlo Fusco, che divenne un brillantissimo giornalista; appena arrivato, la redazione si quotò per fargli una dentiera, perché a furia di incontri di pugilato nella foresta di Tombolo gli era rimasto solo un dente». In realtà gli incontri di pugilato e i problemi con i denti erano cominciati per Giancarlo Fusco prima della seconda guerra mondiale e del paradiso proibito (o inferno) di Tombolo. Secondo la testimonianza della sorella Franca a Natalia Aspesi: «A diciassette anni si era'messo in testa di fare il boxeur e si faceva fracassare la faccia da pugili enormi, ben contenti di stenderlo. Gli avevano buttato giù tutti i denti e la mamma lo mandò a Torino da uno specialista, che glieli rifece con un lavoro costoso e dolorosissimo». Giancarlo Fusco la raccontava, a volte, in modo un poco diverso: «Avevo vinto i campionati di pugilato. Dilettanti. Prima categoria. Pesi gallo. Chili 53,200. Mi ritrovavo con una medaglia d'oro (grammi 8), il naso deviato, l'occhio intorpidito e tre denti in meno. Ma avevo diciotto anni. E gli ufficiali della milizia, coi pugnali al fianco e i pacchetti delle paste attaccati al mignolo, mi urtavano i nervi. Così decisi di andarmene. Dove? Che discorsi! In Francia...». «In guerra l'apparecchio si guastò e al ritorno si dovette provvedere di nuovo. Ma il sorriso smagliante durò poco: un bel giorno si vendette la lamina d'oro che lo sosteneva, perché aveva bisogno di soldi; aveva ormai trentaquattro anni ed era una visione tremenda...» dice ancora la sorella Franca. v Tremenda, ma appunto significativa. La descrizione di Camilla Cederna della prima apparizione di Giancarlo Fusco all'Europeo è di quelle che lasciano il segno: «Sandali sfasciati ai piedi, pantaloni con un fil di ferro per cintura, e una cordicina più sotto dove era più necessaria una chiusura, quella bocca vuota, la barba lunga e un bosco di riccioli disordinati...». Un vero clochard. I suoi articoli erano, però, splendidi e i suoi racconti a voce ancora di più. Conquistò Milano come aveva a suo tempo conquistato Viareggio. Viareggio se l'era poi perduta per le intemperanze del suo carattere, quelle notti che non terminavano mai se non in risse. A Milano (allora c'erano molti veri milanesi in più) i riflessi erano più lenti, c'era maggiore capacità di ragionare e giudicare la gente che aveva qualche valore. Ma lui pareva far tutto il possibile per perdersi anche Milano. Come se non riuscisse a mantener la pace con i luoghi in cui si trovava. La dentiera ritornò spesso in ballo come arma impropria in aggiunta al coltello e alla pisto la (forse) finta. Una notte al l'Anthony, un night di Lambra te, locale non dei più celebrati, dove andava a incarognirsi do po aver cicalato all'ammezzato del Don Lisander e in altri siti rispettabili, immerse la dentiera nella coppa di champagne di un certo Michele con cui voleva battersi perché maltrattava un'entraineuse. Aveva accanto a Milano una donna veramente straordinaria, Erina Collini, bruna, roma¬ gnola, intelligentissima e a lui affezionata, anzi appassionata. Giancarlo Fusco ricambiava quella passione, ma non sapeva fare a meno di tormentarla, di renderle la vita un incubo. L'Erina lo abbandonò solo dopo dodici anni di convivenza nel 1962, più che mai innamorata, ma non riuscendo più a campare. Un giorno Erina prese un taxi, si fece portare dai suoi a Forlì, e rifiutò poi qualsiasi tentativo di riappacificazione, pur continuando a pensare sempre a lui. Un uomo ingiusto e generosissimo. Ingiusto forse soprattutto con se stesso, con il non concedersi una possibilità di scampo. Credeva ai valori che più irrideva, ad esempio, alla letteratura. Posso fornirne una testimonianza diretta. Un giorno comparve nella nostra vita un tal Baruffi (mi pare fosse questo il cognome, ma a volte non sono insicuro solo sui nomi propri, l'amnesia si allarga anche ai cognomi) di Ferrara, che rassomigliava come una goccia d'acqua al severo critico cinematografico Guido Aristarco di Cinema Nuovo, ma si presentava, invece, come produttore cinematografico. Chissà perché aveva pensato a unire Giancarlo Fusco e me per la sceneggiatura di un film di montagna con Luis Trenker protagonista. I soldi promessi ci avrebbero fatto comodo ma fu un'unica comica. Lavorammo al progetto del più improbabile dei film in casa di Giancarlo Fusco, che allora stava proprio davanti all'obitorio. Faceva un caldo boia. Si stava lì a sudare tutta la notte e alla mattina ci presentavamo in via Amedei, all'albergo dove si era piazzato Luis Trenker. L'antico fusto altoatesino ci riceveva a torso nudo, si esibiva con orgoglio e bocciava ogni nostro progetto. «Sono io lerpe», ci diceva, «non posso cadere in un crepaccio. Sono io che salvo, nessuno salva me...». Era una baracconata. Alla fine, soldi o non soldi in palio, ci prendemmo gusto. Con l'ispirazione dell'obitorio lì a pochi passi, ogni mattina eravamo in grado di proporre a Luis Trenker una tale serie di sciagure che lui un giorno quasi pianse, poi preferì ruggire. Salutammo il produttore Baruffi o come si chiamava. Eravamo molto orgogliosi di aver rinunciato a una cattiva azione. Una sera (anzi, una notte) Giancarlo Fusco mi telefonò non so da dove più roco del solito: «Sai chi ha accettato di fare la sceneggiatura?» mi disse, e non stette ad aspettare un'ipotesi, «Giorgio Bassani e Pierpaolo Pasolini, loro sì che sono persone serie...». Vorrei che lo ritrasmettessero in televisione quel film, vorrei che lo vedeste anche voi, peccato che abbia dimenticato il titolo, ah la memoria... Oraste del Buono Giancarlo Fusco e Brina Gollini, la donna che gli fu accanto a Milano per dodici anni