Caccia terzo ergastolo
Caccia, terzo ergastolo Il boss calabrese Belfiore riconosciuto mandante del delitto Caccia, terzo ergastolo Igiudici di Milano confermano la condanna che la Corte di Cassazione aveva annullato L'omicidio del procuratore capo di Torino, Bruno Caccia, fu ordinato da Domenico Belfiore, il presunto boss dei «calabresi». E' lui l'unico responsabile dell'agguato al magistrato, ucciso il 26 giugno '83, mentre portava a passeggio il cane sotto casa in via Sommacampagna. Questo ha ribadito in sentenza ieri pomeriggio la seconda corte d'assise d'appello di Milano che ha confermato la condanna all'ergastolo per l'imputato. Belfiore ha accolto il giudizio con un gesto di dissapunto. Proprio l'altro giorno gli era arrivata da Roma la notizia che la Cassazione, presieduta da Corrado Carnevale, aveva annullato la sua condanna a 26 anni di carcere per l'omicidio di Gozzi, un ambulante di Vinovo. Se non gli avessero riconosciuto la responsabilità dell'omicidio Caccia, per lui si sarebbero spalancate le porte del carcere. E' la terza volta che i giudici milanesi (il processo si svolge per competenza a Milano perché la vittima è un magistrato di Torino) condannano Domenico Belfiore all'ergastolo. Inflisse quella pena la corte d'assise nel giugno '89, la confermò la prima sezione della corte d'assise d'appello un anno dopo. Poi, l'anno scorso la Cassazione ordinò di rifare il processo perché il verdetto non era ben motivato. A mettere nei guai Domenico Belfiore erano stati i racconti dei pentiti del clan dei catanesi. Roberto Miano, Antonino Saia e Carmelo Giuffrida avevano riferito: «Belfiore avvertì la nostra organizzazione che stava per accadere qualcosa di importante ed era meglio che in quel giorno noi ci trovassimo fuori città». Era il preannuncio dell'assassinio? Poco dopo il delitto nell'infermeria del carcere Le Nuove, Francesco Miano registrò una conversazione con il boss dei calabresi. A Miano, che gli chiedeva notizia sull'omicidio, Belfiore rispose: «Per Caccia dovete dire grazie soltanto a me». Ma quei nastri, registrati senza l'autorizzazione del magistrato, furono dichiarati inutilizzabili dalla Cassazione. Fu salvato solo un colloquio tra Miano e Giuseppe Belfiore, fratello di Domenico, perché intercorreva tra soggetti estranei alla vicenda Caccia. In quel nastro Giuseppe Belfiore dice: «Di questa vicenda sappiamo solo tu, io e mio fratello. Per rispetto a Domenico non gli ho chiesto chi sono stati gli esecutori materiali, ma solo noi sappiamo la verità». Secondo la Procura milanese, Caccia fu ucciso perché dava fastidio con la sua tenacia e la sua capacità alla malavita organizzata. Per questo andava eliminato: era un giudice incorruttibile. I «calabresi» di Belfiore avevano deciso la sua morte anche per fare un piacere agli amici «catanesi» di Ciccio Miano. Tesi sostenuta con vigore anche dagli avvocati Badellino, Guaraldo e Bana di Milano, parte civile per la famiglia. Il difensore Mittone ha ribattuto, invece, che non esiste alcun riscontro alle parole di Belfiore, né ad un accordo tra catanesi e calabresi: «Manca un movente plausibile, esistono solo indizi, niente di più». La corte d'assise d'appello ha ritenuto invece che il colpevole è proprio Domenico Belfiore. Ma qual è stato il movente del delitto? Era questo il nodo centrale del processo e occorrerà attendere le motivazioni della sentenza per comprendere come è stato sciolto dalla corte milanese. Gli avvocati di parte civile hanno commentato: «Si presume che i giudici abbiano individuato nel rigore morale di Caccia, nelle sue iniziative giudiziarie, nella sua incorruttibilità la causa della sua morte». Nino Pietropinto A fianco il magistrato ucciso, Bruno Caccia. A destra il boss Mimmo Belfiore
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