Rossini, la serietà del buffo

Rossini, la serietà del buffo Duecento anni fa nasceva il genio: dopo i trionfi con l'opera comica la rivoluzione del melodramma italiano Rossini, la serietà del buffo e ritmo dell'anti-Leopardi DI OPCD la morte di Napoleone c'è stato un altro uomo del quale si parla ogni giorno a Mosca come a ■ 1 Napoli, a Londra come a Vienna, a Parigi come a Calcutta. La gloria di quest'uomo non conosce limiti, se non quelli del mondo civile, ed egli non ha ancora trentadue anni!». Così scriveva Stendhal nel 1823: quell'uomo ' era Rossini. Ma l'oblio che, sotto l'ondata delle avanguardie romantiche, sommerse la sua opera nei decenni successivi sarebbe venuto assai presto: tramontata la tecnica del belcanto acrobatico, la sua produzione seria sparì dal repertorio ottocentesco, con l'eccezione del Guglielmo Teli, e al solo Barbiere di Siviglia e, in parte, alla Cenerentola toccò il compito di perpetuare l'immagine del genio che aveva liquidato la storia secolare dell'opera buffa italiana in una trionfale apoteosi. Quando nel 1925. il Teatro di Torino propose la prima ripresa moderna dell'Italiana in Algeri si gridò al miracolo. Ancora nel 1950 la Callas e Gavazzeni rivelarono al mondo moderno l'inimitabile arguzia del Turco in Italia, «manifesto di dolce vita» (Mila). Ma l'arte della «divina» mutò la storia: Maria Callas (che un latinista ha recentemente definito importante come il grande filologo Giorgio Pasquali, e di lui certo più «divertente») mostrò che il belcanto non era un fossile decorativo, come si credeva dal secondo Ottocento in poi, e che tra gli estremi della tessitura poteva insinuarsi il palpito della passione. Il gioco era fatto: un manipolo di grandi cantanti sorse sulla sua scia e la riscoperta del Rossini serio, innalzata come bandiera del Festival pesarese, nel 1981, e preceduta da consistenti anticipazioni, cambiò il volto del musicista nella recezione di noi contemporanei. Il bicentenario che oggi celebriamo corona vent'anni di Rossini-Renaissance: l'immagine del musicista ambivalente che per un verso innova e per l'altro guarda al passato, cullandosi nelle braccia di un attardato edonismo settecentesco, si è completamente sbriciolata. Ora sappiamo bene che cosa accendeva l'entusiasmo dei contemporanei: l'eccitazione della modernità, ossia vedere il melodramma italiano investito e rinnovato da un'energia scoppiarne e da un patetismo ignoto. Ora le radici musicali e drammatiche di Donizetti, Bellini e Verdi sono lì, visibili sotto gli occhi di tutti, nella grazia boschereccia del Tancredi e nell'asperità cherubiniana di Ermione, nel tragico incanto di Otello, nel sontuoso eroismo del Maometto II, nella sensualità di Armida, nell'aggressività visionaria di Semiramide, nell'idillio naturalistico della Donna del Lago che tanto piaceva a Leopardi: «... potrei piangere anch'io, se il dono delle lacrime non mi fosse stato sospeso...». Ma il Rossini serio non si limita a porre queste istanze romantiche, con una versatilità sovrana: egli gioca continuamente a superarle nella gioia fisica del ritmo e del suono. Così, nel bel mezzo della situazione tragicopatetica, una scintilla può partire improvvisamente dalle regioni più remote dell'orchestra e incendiare, a poco a poco, gli strumenti e le voci, sommergendo il dramma, l'individuo e i suoi conflitti psicologici nella geometrica e razionale precisione di un vitalismo che tutto trascende. Lo stesso succede nell'opera comica dove dramma e gioco, tesi e antitesi si rovesciano continuamente l'uno nell'altro, rifluendo nella sintesi di una risata cosmica: e si capisce allora perché Hegel dicesse d'amare il Figaro di Rossini più di quello di Mozart. E' nell'opera buffa che Rossini celebra i suoi massimi trionfi, questo non va dimenticato, malgrado il nostro attuale entusiasmo.per la riscoperta del Rossini serio. E' qui che la forza propulsiva della sua musica sale al massimo grado, e il ritmo, sempre teso e pulsante, che egli riteneva l'elemento principale della musica, innerva le più fantasiose peregrinazioni della fantasia con una coerenza di raccordi interni imparata dallo studio di Haydn, Mozart e Beethoven: solo all'audacia di quest'ultimo sono paragonabili l'impeto sussultorio del ritmo rossiniano, le dirompenti novità del vocabolario e dello stile che attirarono sul giovane compositore l'appellativo ironico di «tedeschino» da parte di coloro che l'accusavano di seppellire il belcanto sotto una valanga di fragore orchestrale. In realtà, Rossini aveva recuperato in extremis un mezzo che Mozart aveva già liquidato da tempo: e, inserendo il canto acrobatico nell'opera buffa, giocava a meccanizzare la voce almeno quanto si divertiva ad affidare a violini e flauti, oboi e clarinetti non solo l'effusione del canto ma l'imitazione della parola umana. Il risultato era la possibilità, sfruttata con infallibile senso teatrale, di un colossale capovolgimento gerarchico: trasformare quando meno te lo aspetti la voce da protagonista in commento, rimpicciolire improvvisamente personaggi scolpiti a tutto tondo - Figaro, Rosina; Bartolo, Basilio, Isabella, Mustafà, Cenerentola, Dandini, Don Magnifico sino a farne le pedine d'un ilare delirante balletto. Tutto ciò significava riconsegnare alla cultura europea, in chiave di vitalismo romantico, il senso di un'antica comicità rabelaisiana che si era a poco a poco illanguidita ed estenuata: un riso carnevalesco, non satirico e demolitore, bensì positivo e rigenerante che pareva sintonizzare la vita individuale sui ritmi d'una gigantesca orologeria cosmica, sul respiro del tempo che tutto travolge ma insieme tutto rinnova. Non si intende l'intero sistema culturale del primo Ottocento italiano se accanto al tragico nichilismo leopardiano non si pone la sua controfigura vitalistica e positiva, e se non si considera che quel sogno di incontaminata beatitudine che l'infelice poeta vagheggia nell'Elogio degli uccelli, creature viventi di puro canto, Rossini lo aveva appena realizzato nei cinguettanti duet- ti della Cenerentola, nei vortici leggeri con cui le voci del Tancredi e del Mose in Egitto sembrano salire sempre più in alto verso l'astrazione della pura felicità. Il fatto che nei nostri licei non si studi la storia della musica in nome di una vecchia cultura idealistica che ormai fa acqua da tutte le parti è, come si può intuire, fortemente limitante. Rossini come l'anti-Leopardi: è questa l'ipotesi che vorrei suggerire alla riflessione del bicentenario. Da un lato il rifiuto della vita, la maledizione della natura matrigna, il senso del tempo come implacabile distruzione del bello e del buono; dall'altro il tuffo nell'ebbrezza vitale, la celebrazione dell'intelligenza e dell'arguzia come mezzo di felicità, il senso del tempo come eterno rinnovamento, allegro divenire, rinascita dell'individuo nel ritmo del Tutto. Colossale antitesi che Manzoni e .Verdi avrebbero poi risolto senza disperazione e senza euforia, accettando la dura realtà della vita, l'uno nella prospettiva della speranza cristiana, l'altro con la fede incrollabile nella saldezza dei valori morali. Paolo Gallarati Nell'aggressività visionaria della «Semiramide» visibili le radici musicali di Bellini, Donizetti e Verdi Gioacchino Rossini. Di lui scrisse Stendhal: «La gloria di quest'uomo * non conosce limiti. E non ha ancora 32 anni» Giacomo Leopardi (sopra) confessò commozione: «Potrei piangere se il dono delle lacrime non mi fosse stato sospeso» • :].■ pi Marìa Callas (a lato) mostrò che il belcanto non era un fossile Con lei nel ' Gavazzeni (sopra) rivelò l'arguzia del «Turco in Italia»