Gotti, il gangster studia al cinema di Gaetano Scardocchia

Gotti, il gangster studia al cinema Il padrino scimmiotta gli eroi dei film; e sul processo di New York scrivono anche gli esperti di moda Gotti, il gangster studia al cinema JNEW YORK OHN Gotti entra ogni mattina nell'aula del tribunale sfoggiando un nuovo vestito ed una nuova cravatta. Si è fatto portare in prigione un immenso guardaroba. Predilige le giacche gessate a doppio petto, che gli conferiscono l'aria di un serio «businessman». Ma le cravatte di seta sono sempre fantasiose ed appariscenti: «glamorous», scrivono i reporter americani. Insomma, la contegnosità del potere viene temperata da un tocco frivolo, come per dire che lui l'ultimo grande e terribile gangster italo-americano - apprezza anche il lato leggero della vita. La parata di quotidiana eleganza è tale che un giornale newyorchese, il Newsday, ha pensato bene di affiancare ai cronisti giudiziari la redattrice di moda, affidandole una rubrica, corredata di disegni a colori, che s'intitola «Today's Gotti garb», l'abbigliamento odierno di Gotti. Venerdì scorso, per esempio, si poteva leggere questa descrizione: «Gotti indossava oggi un gabardine di seta a spina di pesce, che si distingueva per il suo tono soffice, primaverile, rispetto ai grigi invernali di magistrati ed avvocati. La giacca è ben aderente, così da esaltare le spalle ed affusolare la vita ed i fianchi. La cravatta, anch'essa di seta, ha un disegno a vortice che, su uno sfondo grigio, riprende la luminescenza perlacea del vestito». La morte registrata La divertente trovata di Newsday dimostra che la società americana si è talmente abituata alla presenza pervasiva della mafia, nei film e nei libri prima ancora che, nella realtà, che può scherzarci sopra. Ma nel contempo, e sia pure in modo scherzoso, Newsday pone un problema che tormenta anche il più compassato New York Times, ovvero se sia Gotti a scimmiottare i falsi padrini del cinema o se sia il cinema a trasformare i Gotti in eroi; che poi è un modo di riaprire l'eterno dilemma, che ha assillato filosofi e critici per oltre duemila anni, se sia la vita che imita l'arte o se sia l'arte a imitare la vita. Dubbio che ha risvolti processuali, poiché gli avvocati della difesa cercano ogni scappatoia, ogni gioco di specchi, per sottrarre all'ergastolo il loro cliente. Dopo essere stato assolto in tre precedenti processi, John Gotti stavolta rischia grosso. Ad avvalorare le accuse non è solo la testimonianza dei suoi ex collaboratori che lo hanno tradito, tra i quali il suo «vice» Sammy Gravano, ma sono anche e soprattutto i nastri registrati dall'Fbi mediante una microspia installata nei locali del Ravenite Social Club, un circolo di Little Italy che era il quartier generale della famiglia Gambino. Clan del quale Gotti ha assunto la guida dopo aver fatto uccidere il boss Paul Castellano. In questi nastri Gotti parla a ruota libera dei rivali che ha fatto o vuol far eliminare. Sul confuso sfondo di-vecchie canzoni napoletane o italo-americane (il leit-motiv è Mona Lisa, cantata da Perry Como), oltre che di turpiloqui e risate, la giuria ha potuto ascoltare alcune battute agghiaccianti. Per esempio, durante un colloquio con il suo «consigliere» Frank Locascio, Gotti dice: «Ogni volta che troviamo un partner che non è d'accordo con noi, finiamo con l'ammazzarlo. Dimmi tu, Franine: dove andremo a finire di questo passo?». Parlando di un certo Robert Dibernardo, che è scomparso dal 1986 e si presume sia stato ucciso, Gotti si lascia sfuggire questa frase: «Con te ha mai fatto discorsi sovversivi? No? Io invece ho creduto a quello che mi diceva Sammy (Gravano) e cioè che Robert parlava male di me alle mie spalle. Sapevo che l'avrebbero ucciso, e non ho fatto niente per impedirlo». Riferendosi a Louis Di Bono, un «soldato» della sua famiglia sospettato di essersi indebitamente appropriato di parte del bottino che doveva amministrare, Gotti ne preannuncia la morte con parole inesorabili: «Ho guardato bene le carte. Louis non ha rubato niente. Ma lo sai perché "morirà"? Perché non è venuto da me quando l'ho convocato per avere una spiegazione». E due mesi dopo Louis Di Bono viene trovato morto con sette proiettili in corpo. Certo, il comportamento di Getti è strano: doveva sapere, o almeno sospettare, che il suo circolo era spiato dall'Fbi. Tanto è vero che in certi casi, quando voleva comunicare a un suo complice qualcosa di importante, Gotti lo invitava a uscire e a fare una passeggiata intorno all'isolato. La polizia ha proiettato in aula le immagini di queste confabulazioni all'apèrto, filmate con un teleobiettivo. Si capisce dai gesti e dai volti che i mafiosi si scambiano ordini ed informazioni cruciali. E se escono, dal circolo, se parlottano guardinghi, è perché sanno che nei locali può esserci una microspia. Come si spiega allora che in altri momenti e circostanze, dentro il circolo, Gotti si lascia sfuggire tante ammissioni compromettenti? Perché dimentica il pericolo che pure sa di correre? I poliziotti che lo conoscono bene dicono che questo è il suo carattere: spavaldo, avventato, impulsivo. Gotti vuole comportarsi come i gangster del cinema, che non hanno mai paura di nulla ed amano il rischio per il rischio. Attendibile o no che sia, questa spiegazione viene condì- visa dai legali della difesa, i quali sostengono che a forza di comportarsi come gli eroi del cinema, il loro cliente ha finito per adottarne il linguaggio «esagerato», «colorito», «iperbolico», la cui violenza sarebbe tutta simbolica. Di fronte all'inoppugnabile prova dei nastri, l'avvocato Krieger sostiene che Gotti esprime minacce irreali, millanterie che non vanno prese alla lettera. Espressioni come «whaz» e «whafked», che nel gergo malavitoso significano «ammazzare» ed «ammazzato», verrebbero usate da Gotti come frasi fatte, locuzioni pittoresche. Gotti insomma parla come si veste: per crearsi un'immagine pubblicitaria, per assomigliare ai padrini dello schermo. Senza nulla togliere ai crimini di Gotti, l'idea di un inestricabile intreccio tra realtà dei fatti e finzione cinematografica è stata presa molto sul serio dal New York Times, che ha interrogato criminologi, psicologi e storici del cinema per stabilire in che misura luna ha influenzato l'altra. A quanto pare, storicamente, la «collusione creativa» tra malavitosi veri e malavitosi immaginari è cominciata prima ancora che John Gotti nascesse: così che sullo schermo l'attore James Cagney imitava il (vero) gangster Dion O'Bannion, mentre nella vita il gangster Joe Gallo cercava di mimare la risata gelida dell'attore Richard Widmark nel film Kiss ofDeath (Il bacio della morte). La reciproca attrazione tra malavita e cinema ha portato a fasi di proficua collaborazione. Gli sceneggiatori di Married to the mób (Sposata alla mafia) del 1987 hanno ammesso di aver creato il personaggio del gangster spaccone e maldestro Tony Russo (detto «the tiger») ispirandosi a Gotti, del quale avevano seguito il processo dell'86: «Ci aveva colpito la sua incredibile faccia tosta, il modo nel quale si pavoneggiava in aula». Il gangster Henry Hill (la cui biografia scritta da Nicholas Pileggi ha ispirato il film Goodfellas di Scorsese) ha raccontato che il cinema ha avuto grande influenza nella sua carriera criminale: «I mafiosi che ho conosciuto da adolescente si comportavano come attori, ed io volevo imitarli: nei vestiti, nel modo di parlare e di camminare. Ho visto per cinque volte il film Mean Streets di Martin Scorsese». A sua volta, dopo essere pienamente maturato come gangster, Hill ha fatto da consigliere a Robert De Niro durante la lavorazione di Goodfellas: «De Niro mi telefonava fino à sette-otto volte al giorno per conoscere ogni dettaglio del suo personaggio». Ora sappiamo che un mafioso genuino come Joseph Colombo fu consulente di Coppola per il film II Padrino (1972), fornendogli suggerimenti e persino alcune comparse, a patto che nel film non venisse mai menzionata l'espressione «Cosa Nostra». In quei giorni, l'attore James Caan, che interpretava il ruolo di Sonny Corleone, si incontrava così spesso con il gangster Carmine Persico che gli agenti dell'Fbi - non avendolo riconosciuto - lo segnalarono ai superiori come un aspi¬ rante membro della mafia. Del resto proprio durante l'attuale processo a Gotti, un altro imputato, Salvatore Locascio, ha inveito contro un giudice che a suo parere non rispettava le procedure, usando un linguaggio che corrisponde parola per parola alle battute di Rod Steiger nel Film A? Capone del 1959: «Abbiamo o no una Costituzione in questo Paese? Ne ha mai sentito parlare? Le consiglio di tornare in ufficio e di leggerla». Accantonando la disputa se sia stato il cinema a inventare i gangster o i gangster a ispirare il cinema (il critico William Everson sostiene che la parola «gangster» fu usata per la prima volta nel 1912, anticipando la crescita del crimine organizzato che si manifestò solo negli Anni 20), resta il dubbio su Gotti: mafioso autentico o mafioso finto? Si tratta certamente di un mafioso autentico, come provano i cadaveri che ha disseminato nelle strade di New York. Ma è nel contempo anche finto, nel senso che cerca di rilanciare un'immagine iridescente e prestigiosa del proprio ruolo. E questa immagine non può trovarla altro che nel cinema, perché nella realtà non esiste più: i mafiosi di vecchio stampo sono morti e i giovani, quando non stanno in carcere, sono di fibra fragile, come provano i tradimenti che hanno portato a questo processo. Con i suoi vestiti gessati, le sue giacche a doppiopetto, le sue cravatte vistose, John Gotti è insieme un personaggio troppo nuovo e troppo vecchio. E' nuovo perché non ha le capacità di gestione che avevano un Lucky Luciano o un Paul Castellano, il primo dei quali dirigeva i suoi affari da una suite del Waldorf Astoria e il secondo non usciva mai dalla sua remota villa a Staten Island: sobri, controllati, efficienti. Criminale cerca lavoro Ed è vecchio perché, nella ricerca di un modello, si rifa in qualche modo ai personaggi sgargianti degli Anni 20 e 30, ai gangster con le ghette di cuoio ed il garofano all'occhiello. Ma, non avendoli conosciuti di persona, Gotti è costretto a copiarne sembianze e mosse dai film. E finisce col somigliare a una caricatura di Al Capone, alla maschera del mafioso come centinaia di sceneggiatori e registi l'hanno immaginato ad Hollywood: sanguinario e fascinoso, spietato e tracotante, più simile al Little Cassar (1930) di Edward G. Robinson che all'ultimo Padrino di Al Pacino. Gli esperti di queste cose dicono che, se anche venisse assolto, John Gotti resterebbe - nel migliore dei casi - disoccupato. Un brillante giornalista, Nick Tosches (in un saggio apparso su Newsday) gli suggerisce di pubblicare sui giornali il seguente annuncio pubblicitario: «Ricerca di lavoro: mafioso fotogenico ed espansivo pronto a fare da capo o da ambasciatore per importante organizzazione criminale. Dispone di proprio guardaroba». Gaetano Scardocchia Orai mafiosi diventano consulenti dei registi A ogni udienza, nuova giacca a doppio petto e cravatte di seta De Niro (qui accanto) in «Goodfellas» A sinistra: «Il bacio della morte». Gotti,

Luoghi citati: Hollywood, New York